Cartella esattoriale “omertosa?” … ma sì(?!)

 Tizio riceve ingiunzioni di pagamento (si suppone siano vecchie ingiunzioni ex RD 639/1910 – lo svolgimento del processo non lo precisa) e cartelle esattoriali per TARSU relativa agli anni 1999 e 2000.

Gli atti non indicano le modalità con cui proporre ricorso né il termine entro il quale ricorrere sicché Tizio non propone ricorso in tempo.

La Commissione Tributaria respinge il ricorso ritenendolo tardivo (il che vuol dire: ti respingo la domanda senza neppure leggerla perché l’hai proposta oltre il termine) e la vicenda finisce in Cassazione.

Con Sentenza 15143/2009 la Cassazione afferma:

•-         visto che la legge (Art. 5 l. 212/2000) non prevede espressamente la nullità dell’atto tributario per il solo fatto che le richieste indicazioni non sono presenti

•-         visto che l’errore non è “scusabile” e, in ogni caso, il contribuente non ha dimostrato che era scusabile

si respinge il ricorso.

Ci si domanda come dimostrare la “scusabilità” di un errore visto che si tratta di un’opinione e non di un fatto… a meno che non si cada nell’arbitrio più sfrenato.

Ci si domanda dal punto di vista di chi si debba valutare la scusabilità dell’errore – la Sentenza fa il paio con la Sentenza 14987/2009 già commentata su questo sito.

Ci si domanda che cosa accada in caso di cartelle che ingiungono contemporaneamente il pagamento di più entrate le opposizioni alle quali sono di competenza di organi diversi (Giudice di Pace, Tribunale, Commissione Tributaria, TAR… le giurisdizioni  non mancano).

Ci si domanda come sia necessario – per obbligo costituzionale, tanto che il legislatore è dovuto intervenire con l’apposita (ed ennesima) norma “salva cartelle” – indicare in cartella il responsabile del procedimento di riscossione, ma non sia necessario (??) indicare termini e modalità del ricorso.

Ci si domanda: ma se io domando al responsabile del procedimento di riscossione davanti a chi ricorrere e come ed entro quando, il responsabile … risponderà?

A modesto parere dello scrivente siamo di fronte ad una Sentenza “costituzionalmente disorientata”, ma, per ora, sembra che il contribuente se la debba tenere e, nel silenzio dell’atto da impugnare, rivolgersi a qualche oracolo che gli dia la risposta giusta nel rispetto dei termini di opposizione.

Sanzioni Tributarie … l’ignoranza scusa?

Cominciamo dalla legge e, in particolare, dall’art. 10 del Dlt 212/2000 (soprattutto il terzo comma) che così dispone:

 “1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.

 2. Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa.

3. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’àmbito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto(“.

Sembrerebbe, quindi, che, a differenza di quanto avviene di solito, in materia tributaria l’ignoranza scusi.

Come si sa, però, le leggi devono essere interpretate ed applicate. Nnon esistono leggi “chiare” e, soprattutto, non esistono leggi chiare in rapporto ad ogni specifico caso che si può verificare nella vita reale, ma questo è un discorso più epistemologico che giuridico.

Quindi: che cosa vuol dire, in concreto, “obiettive condizioni di incertezza?”.

La Cassazione, sull’onda lungo di un orientamento pro fisco su cui i giudici sembrano fare surf negli ultimi tempi precisa, (Sentenza 14897/2009) “l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente“.

Fin qui, niente di (troppo) strano. L’incertezza è un esimente e chi la invoca la deve provare. Deve provare cioè che le norme censurate sono contraddittorie, scoordinate, equivoche, mal scritte ecc. ecc. In realtà è più difficile quanto sembri: non perché manchino norme confuse, scoordinate, equivoche, mal scritte ecc. ecc. (anzi, ce ne sono in abbondanza), ma perché la “incertezza” non è un fatto, ma un’opinione. Ciò che appare incerto a me (per es. me contribuente), può apparire certo ad un altro (per es. il fisco) e un terzo (per es. il giudice) può avere, in proposito, un’altra opinione ancora. Premesso che “l’obbiettiva incertezza” è una chimera, almeno se la si intende nel senso più rigoroso, la domanda è dal punto di vista di chi ci si deve porre quando ci si domanda se l’applicazione di una norma nel caso concreto è obbiettivamente incerta?

Nel campo delle sanzioni penali si parla, da sempre, di “conoscenza parallela nella sfera laica” e ci si pone dal punto di vista della persona “media”. In altre parole (e per fare un esempio di scuola) nessuno si difenderà mai da un’accusa di omicidio sostenendo di ignorare che l’omicidio è un reato.

E in campo tributario?

Qui “l’onda lunga” di cui si parlava rischia di abbattersi soprattutto sul contribuente.

La Cassazione (v. anche Cass. 24670/2007) sostiene che ci si deve porre dal punto di vista non del generico contribuente, né dell’ufficio finanziario, né del professionista del settore. È il giudice “unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere – dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” a dover compiere tale giudizio. Si tratta, aggiunge la cassazione, non di un giudizio di fatto, ma di una questione di diritto. Non si tratta meno che mai di una questione di “equità” (la CTR aveva adottato proprio questo criterio, cassato dalla suprema corte).

Qui però, a sua volta, ci si deve chiedere: il giudice, nel valutare se un norma è certa ed incerta (e nessuno gli nega tale potere/dovere) dal punto di vista di chi si porrà, dal proprio (cioè dal punto di vista di un operatore del settore) oppure “farà finta” di essere un contribuente medio (nell’interesse del quale lo Statuto è dettato) ? – e (aggiungiamolo subito a scanso di equivoci non un “finto tonto”).

La Sentenza, in realtà, pare eludere il problema. È ovvio che è il giudice a dover interpretare la norma, ma secondo quali criteri? A parere dello scrivente, è palese che un giudice di commissione tributaria ha, nel valutare l’interpretazione di una norma, criteri e strumenti del tutto diversi dal quisque de populo. A lui parranno chiare norme che il cittadino medio reputa oscure.

A giudizio di chi scrive si corre il rischio di una decisione pro fisco non per parzialità del giudice, ma per caratteristiche intrinseche dello strumento d’interpretazione, il che appare essere un passo indietro rispetto ai principi dello statuto del contribuente.

SE IL FISCO È UNO STALKER

 Lo Stalker è, lo sappiamo, un “persecutore” un soggetto che ossessiona un altro chiedendo contatti a chi, con lui, preferirebbe non avere nulla a che fare (a parere dello scrivente si potrebbe usare senz’altro il termine italiano, ma la lotta contro l’abuso – non l’uso – di parole straniere, si sa, è tanto nobile quanto vana).

Nel caso su cui la Cassazione si è pronunciata il contribuente aveva accusato il fisco di “persecuzione”.

Il contribuente in questione si lamentava del tardivo ritiro di un atto impositivo sbagliato: si trattava di una cartella esattoriale ritirata dopo sei mesi di insistenti tentativi.

Secondo i “motivi della decisione” della Sentenza (Sent. 8703/09), il contribuente si doleva del fatto che il fisco aveva leso il suo “diritto alla tranquillità, facendogli perdere tempo ed energie, tra visite a vuoto agli sportelli, richieste e reiterati solleciti, per dimostrare che la somma richiesta non era dovuta“.

Aveva quindi agito contro il Giudice di Pace di Catania chiedendo il risarcimento del danno.

Il Giudice di Pace aveva accolto la richiesta e condannato al risarcimento del danno, pari ad € 300,00 (calcolati probabilmente in base ad un criterio equitativo) l’Agenzia delle Entrate.

Quest’ultima aveva impugnato in Cassazione.

La Sentenza si segnala per il collegamento con le Sentenze (in primis la 26972/08) che hanno affermato che “il danno esistenziale non esiste”.

In sintesi, la Cassazione (stavolta a sezione semplice) osserva che quello di cui, nel caso in esame, il contribuente si lamentava, era un danno non patrimoniale.

Se ne deduce che il risarcimento chiesto dal contribuente non equivaleva a (per esempio) ore di lavoro perse, ma a fastidi, disagi, seccature.

Osserva la Cassazione che, perché possa aversi risarcimento del danno non patrimoniale, è necessario che vi sia

•-         un reato oppure

•-         un altro fatto illecito produttivo di danno non patrimoniale (argomento ex art. 2059 c.c.) oppure

•-          la lesione di un diritto costituzionale inviolabile

In quest’ultimo caso (lesione di un diritto costituzionale inviolabile) la rilevanza costituzionale deve riguardare il diritto leso, non il pregiudizio sofferto. In altre parole, perché possa risarcirsi un danno non patrimoniale è necessario ledere un diritto costituzionalmente protetto.

Ma non basta. Occorre altresì che

•-         la lesione non sia grave

•-         il danno non sia futile

A tale ultimo proposito e citando apertamente la Sent. 26972/08 la Cassazione ricorda che “disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo di insoddisfazione sono danni bagatellari non meritevoli di tutela risarcitoria“.

È lecito dedurne che “la perdita di tempo ed energia tra visite a vuoto agli sportelli, richieste e reiterati solleciti ” è un danno bagatellare non risarcibile.

Sospendiamo un attimo il commento e parliamo di un’altra Sentenza.

Si parla – e forse si parlerà ancora – della Sentenza (sempre della Cassazione) n°4622/2009.

Qui leggiamo testualmente: “L’ufficio non può notificare a proprio piacimento atti impositivi assumendo che siano privi di effetti giuridici e pretendere che il contribuente se ne stia tranquillo “tanto non accade nulla”… ogni atto giuridico produce effetti e se un atto viene definito inutile dallo stesso ufficio c’è da chiedersi (a parte i dubbi legittimi sulla sanità mentale e/o idoneità professionale delle persone fisiche responsabili di tali comportamenti) perché sia stato adottato e notificato, fermo restando gli effetti di danno … è evidente che il destinatario degli atti ha la necessità di rivolgersi ad un professionista“.

E allora?.

Vediamo di fare un po’ d’ordine.

Si definisce “autotutela” l’attività con la quale l’amministrazione finanziaria, di propria iniziativa oppure su richiesta del contribuente, ritira, modifica od annulla un atto (per. es. un avviso di accertamento o una cartella esattoriale).

Ad agire in autotutela, quindi, è sempre l’ente che ha emesso l’atto oppure l’organo superiore.

L’istanza con la quale il contribuente chiede che l’amministrazione finanziaria agisca in autotutela si definisce ricorso “gerarchico”  o “in via amministrativa”.

Se invece il contribuente ricorre ad un giudice (trattandosi di cartelle esattoriali, di solito è la Commissione Tributaria, ma può essere anche il Tribunale) si parla di “ricorso giurisdizionale”.

In questo caso il contribuente chiede sempre il ritiro, la modifica o l’annullamento dell’atto, ma chiede che a decidere in proposito non sia l’ente che ha emesso l’atto (oppure quello superiore), bensì un giudice.

Il ricorso giurisdizionale deve essere proposto, a pena di decadenza, entro un certo termine. Se il termine non viene rispettato, il ricorso giurisdizionale viene dichiarato inammissibile e respinto per vizio di procedura (decadenza).

Il malcapitato contribuente di cui si è occupata la Sentenza della quale si parlava all’inizio aveva scelto la strada del ricorso gerarchico.

Aveva perso tempo ed era andato avanti ed indietro dagli sportelli.

Tempo “perso” appunto, proprio perché non risarcito né risarcibile.

A questo proposito, in punto di principi costituzionalmente protetti (e lesi?) il pensiero corre all’art. 97 della Costituzione il quale afferma che devono essere “assicurati il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione“, ma andiamo avanti…e tiriamo le fila.

Il tempo perso tra Erode e Pilato per ottenere l’autotutela è una “seccatura” per cui non si dovrebbero seccare i giudici (perdonate il gioco di parole).

Peraltro, dato che gli atti impositivi producono effetti giuridici, il contribuente non può “starsene tranquillo tanto non accade nulla” ma (come dice la seconda Sentenza) “ha la necessità di rivolgersi ad un professionista“.

Quindi se l’autotutela si rivela inutile (ed abbiamo visto che non è neanche il caso di sprecarsi troppo per ottenerla) tanto vale rivolgersi ad un professionista prima che scadano i termini per proporre ricorso giurisdizionale ed agire davanti alla Commissione Tributaria.

In un mondo ideale, se l’atto impositivo si rivela “folle“, tanto che è “lecito dubitare della sanità mentale” di chi l’ha emesso, la Commissione dovrebbe condannare – e condannare pesantemente – il fisco al pagamento delle spese di lite, spese che non si possono definire “disagi, fastidi, disappunti, ansie“.

In un mondo ideale.

Però in un mondo ideale non dovrebbero neppure esistere atti impositivi “demenziali”.

Il rifiuto di autotutela non è impugnabile

 Prima di entrare nel cuore della questione, visto che la stessa richiede un minimo di competenza tecnica, è necessaria una precisazione terminologica.

Si definisce “autotutela” l’attività con la quale l’amministrazione finanziaria, di propria iniziativa oppure su richiesta del contribuente, ritira, modifica od annulla un atto (per. es. un avviso di accertamento o una cartella esattoriale).

Ad agire in autotutela, quindi, è sempre l’ente che ha emesso l’atto oppure l’organo superiore.

L’istanza con la quale il contribuente chiede che l’amministrazione finanziaria agisca in autotutela si definisce ricorso “gerarchico”  o “in via amministrativa”.

Se invece il contribuente si rivolge alla Commissione Tributaria si parla di “ricorso giurisdizionale”.

In questo caso il contribuente chiede sempre il ritiro, la modifica o l’annullamento dell’atto, ma chiede che a decidere in proposito non sia l’ente che ha emesso l’atto (oppure quello superiore), bensì un giudice. Quelli tributari sono, per l’appunto, giudici.

Il ricorso giurisdizionale deve essere proposto, a pena di decadenza, entro un certo termine.

La durata del termine cambia a seconda dell’atto di cui si chiede la modifica o l’annullamento. Di solito, il termine è di 60 gg. dalla notifica.

Se il termine non viene rispettato, il ricorso giurisdizionale viene dichiarato inammissibile e respinto per vizio di procedura (decadenza).

Il ricorso gerarchico, invece, non ha termine.

Qual è il rapporto tra i due ricorsi?

Esprimendosi in termini approssimativi, ma, si spera, abbastanza chiari, si può affermare che, di solito, la giurisprudenza afferma che se si propone ricorso giurisdizionale, quello gerarchico deve intendersi abbandonato.

L’elemento importante, però, è che se si propone ricorso gerarchico i termini per proporre ricorso giurisdizionale non si sospendono.

Quindi, se, per esempio, si hanno sessanta giorni di tempo per impugnare una cartella o un avviso di accertamento e li lasciano scadere senza proporre ricorso giurisdizionale, ma limitandosi a proporre ricorso gerarchico, non sarà più possibile, scaduti i termini (i sessanta giorni dell’esempio), proporre ricorso giurisdizionale, ma si potrà contare solo sul ricorso gerarchico, sperando che venga accolto. Prova il casino reale online casino Canada real money e vinci!

E che cosa accade, se il ricorso gerarchico viene respinto? Se cioè l’ente che ha emesso l’atto (o quello superiore) rifiuta di ritirarlo, modificarlo, annullarlo? Se, in altre parole ancora, l’autotutela viene respinta?

Secondo le Sezioni Unite – Cassazione SSUU 2870/99 del 6/2/09 – non c’è più niente da fare.

Il provvedimento col quale l’amministrazione finanziaria respinge l’autotutela, cioè il c.d. “diniego” o “rifiuto” di autotutela, non è impugnabile.

Così si esprimono le Sezioni Unite “avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale“.

Ciò, in diritto, per due ragioni.

La prima è che l’autotutela è un atto discrezionale – quindi non coercibile – della pubblica amministrazione.

La seconda è che, a ragionare diversamente, si rimetterebbe in termini il contribuente che ha lasciato trascorre invano i termini per proporre ricorso giurisdizionale (volendo rimanere nell’esempio, i sessanta giorni di cui sopra).

Conseguenza pratica (non trascurabile) della Sentenza in commento è lo “sfoltimento” di molti ricorsi avverso dinieghi di autotuela, i quali verranno dichiarati inammissibili senza entrare nel merito.

Il consiglio pratico, quindi, è di proporre pure ricorso gerarchico, ma di non lasciare trascorrere invano i termini per proporre ricorso giurisdizionale e, nel dubbio o nel silenzio, proporlo.

Il canone RAI e l’acqua pura

 Come probabilmente è già noto a chi frequenta queste pagine, la Corte Costituzionale, con una recente Sentenza, ha affermato che se l’acqua non è depurata non si deve pagare la depurazione.

La Sentenza è già stata commentata, quindi non ci ritornerò sopra più di tanto. Basti dire che il giudice delle leggi ha sostenuto che il contratto di somministrazione è un “banale” contratto di diritto privato. La depurazione è un servizio, non un canone od una tassa. La conseguenza è che se c’è il servizio di depurazione, si paga. Se non c’è, non si deve pagare.

E adesso parliamo del canone rai.

Il balzello è previsto dal RD 246/1938, quando la televisione la conoscevano forse Marconi e pochi altri.

Gli anni sono passati. Dalla EIAR si è passati alla RAI, dalla Rai alle TV commerciali (e a Sky ed alle altre TV a pagamento); sono nati la televisione, i computer, i videofonini, i videocitofoni, ma il canone RAI è rimasto.

Perchè, secondo la Cassazione, il canone RAI “originariamente configurato come un corrispettivo dovuto dagli utenti di un servizio riservato allo stato ed esercitato in regime di concessione, ha da tempo assunto natura di entrata tributaria”. (Cass. SSUU 20068/2006)

Esso “non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente e la RAI” (Cass. Sezioni Unite 20 novembre 2007 n°24010)

Insomma: è una tassa.

Il presupposto dell’imposizione tributaria è il possesso di un apparecchio in grado di ricevere o trasmettere immagini. Qualunque apparecchio: TV, videofonino, videocitofono, computer. Etc.

Se si possiede un apparecchio di questo tipo, si deve pagare il canone.

Così è la legge. È una legge giusta?

La Corte Costituzionale (Sentenza 284/2002) ha spiegato come “la legittimità dell’imposizione debba misurarsi non più in relazione alla possibilità effettiva per il singolo utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo al cui finanziamento il canone è destinato  (in parole povere: non c’entra nulla il fatto che uno guardi o no la Rai) ma sul presupposto della sua riconducibilità ad una manifestazione ragionevolmente individuata di capacità contributiva (in parole povere: se uno possiede un apparecchio in grado di ricevere e trasmettere immagini, è abbastanza ricco da poter pagare il canone) …l’interesse generale che sorregge l’erogazione del servizio pubblico può richiedere una forma di finanziamento fondata sul ricorso allo strumento  fiscale. Il canone televisivo costituisce in sostanza un’imposta di scopo destinato come esso è quasi per intero alla concessione del servizio pubblico radiotelevisivo (in parole povere il servizio TV è un servizio pubblico finanziato con tasse, anzi, in modo esclusivo o prevalente col canone)… il collegamento dell’obbligo di pagare il canone alla semplice detenzione dell’apparecchio indipendentemente dalla volontà e dalla possibilità di fruire dei programmi discende dalla natura di imposta impressa al canone che esclude ogni nesso di corrispettività in concreto tra obbligo tributario e fruizione effettiva del servizio pubblico. Presupposto dell’imposizione è la detenzione di apparecchi“. In parole povere: la RAI è un servizio pubblico ed è giusto che la si finanzi con una tassa, anche se poi, in concreto, uno non la guarda.     

L’affermazione non sarebbe tanto strana se la depurazione dell’acqua non fosse un servizio di diritto privato, come si è visto

Quindi, secondo la Corte Costituzionale, la RAI è un servizio pubblico così importante che è giusto che tutti paghino una tassa per mantenerlo. La depurazione dell’acqua… è meno importante e non richiede una tassa a carico della collettività.

Come dire che il fatto che tutti possano vedere “Affari tuoi” è più importante del fatto che tutti bevano acqua pura.

Le cartelle “plurioffensive”, il fermo amministrativo, l’ipoteca esattoriale e la dispersione delle giurisdizioni

 Diciamo subito che la definizione di cartelle “plurioffensive” è solo mia.

Chiamo cartella plurioffensiva la cartella con la quale Equitalia chiede la riscossione di più entrate, per esempio, tasse (Iva, Irpef etc.), contributi previdenziali, cioè dovuti all’INPS, sanzioni amministrative (cioè multe) e quant’altro.

A fronte di una cartella “plurioffensiva” possono seguire un fermo amministrativo od un’ipoteca esattoriale “plurioffensiva”.

Se si esaminano le comunicazioni di fermo (come sappiamo, per l’iscrizione ipotecaria non è previsto alcun obbligo di comunicazione), possiamo infatti notare che, a volte, il fermo è stato disposto perché in data X è stata notificata la cartella 1 per il tributo A e per la sanzione B, in data Y la cartella 2 per il tributo C, in data Z la cartella 3 per il contributo D e, a fronte di tutte queste pretese economiche, Equitalia ad un certo punto ha disposto il fermo (od iscritto l’ipoteca).

È possibile impugnare il provvedimento, davanti a chi e come?.

Come sappiamo (ci sono altri articoli sul tema e, non perché mi piaccia ripetermi, ma per brevità, rimando ad essi) la Visco – Bersani ha introdotto il principio secondo il quale fermo ed ipoteca sono atti autonomamente impugnabili innanzi alla Commissione Tributaria.

Sembrava, quindi, che il legislatore, in modo criticabile, se vogliamo, avesse stabilito una volta per tutte davanti a chi impugnare il fermo. Sembrava cioè che il principio fosse il seguente: non importa perché è stato disposto il fermo (o l’ipoteca): se sei nei termini e ci sono i presupposti, lo puoi impugnare in CTP.

Punto e basta? Nemmeno per idea.

Sul punto, a complicare ancor di più la questione (se possibile) interviene l’ordinanza 14831/2008 delle SSUU, resa il 5/6/2008.

Questo il fatto: il concessionario notifica a Tizio una cartella per contributi INPS e per sanzioni amministrative, poi dispone il fermo. Tizio impugna il fermo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale. Questa si dichiara incompetente e Tizio propone regolamento di giurisdizione.

Questa la decisione delle Sezioni Unite, resa con l’ordinanza in commento: la Commissione Tributaria può decidere sulle impugnazioni di fermi amministrativi (e, aggiungo io, di ipoteche) solo se questi provvedimenti sono disposti per entrate di competenza della CTP (quindi, in pratica, per tasse). Se questi provvedimenti (fermo ed ipoteca) sono disposti per entrate differenti bisogna rivolgersi al giudice di volta in volta competente.

Il principio di diritto, testualmente, è perciò il seguente: “la giurisdizione sulle controversie relative al fermo di mobili registrati appartiene al giudice tributario solo quando il provvedimento impugnato concerna la riscossione di tributi“.

Se il fermo non è disposto per tributi (ma reputo che il principio valga anche per l’ipoteca) il Giudice Tributario “declinerà la propria giurisdizione rimettendo la causa innanzi al Giudice competente“. Nel caso di specie, poiché si trattava di contributi previdenziali, la giurisdizione spetta al Giudice Ordinario del lavoro.

La Cassazione si è poi anche occupata delle cartelle, dei fermi e delle ipoteche che io ho chiamato “plurioffensivi”. In tal caso, sostiene il Supremo Collegio, “il Giudice adito separerà le cause, trattenendo quella per la quale egli ha giurisdizione e rimettendo la restante al Giudice competente. Il debitore potrà in ogni caso proporre originariamente l’impugnazione separatamente innanzi ai giudici diversamente competenti in relazione alla natura dei crediti posti alla base del provvedimento di fermo impugnato (o, aggiungo io, d’ipoteca)”.

Va dato atto alla Cassazione di aver dato risposta ad un quesito di ordine pratico – cioè quello delle cartelle “plurioffensive”.

Tuttavia, non posso che pormi almeno due domande.

Se fermo od ipoteca sono disposti per tributi nulla quaestio: il contribuente li impugnerà in CTP per vizi loro propri, se ci sono. Continuano a valere tutte le considerazioni svolte dopo l’entrata in vigore della Visco – Bersani.

Se fermo ed ipoteca non sono disposti per tributi, però… che cosa fare?

Innanzi tutto va rilevato che non può darsi una risposta generale per il semplice motivo che ci sono più giudici diversi davanti ai quali il processo si svolge secondo riti diversi e con strumenti differenti.

Mi sento tuttavia di avere forti dubbi circa il rimedio dell’opposizione all’esecuzione per la ragione che, almeno sinora, tutti sono concordi nel ritenere che fermo ed ipoteca sono strumenti prodromici all’esecuzione, ma non sono essi stessi strumenti esecutivi né atto di esecuzione.

Probabilmente, la forma di cautela più idonea sarebbe il ricorso ex art. 700 c.p.c. – che ora ha assunto contenuto definitivo.

Tuttavia, è bene aspettare qualche decisione sul punto – ma ormai la giurisprudenza non fa tempo a consolidarsi che interviene qualche renvirement legislativo o del Supremo Collegio.

Certo è che la dispersione dei ricorsi di qua e di là a seconda del giudice competente non è di aiuto al contribuente, che dovrebbe fare più ricorsi, e magari per importi contenuti, pur avendo ricevuto una sola cartella, un solo fermo od una sola ipoteca, quindi la divisione delle giurisdizioni comporta senz’altro una moltiplicazione delle spese, con l’inevitabile conseguenza di una compromissione della tutela per il cittadino.

La seconda domanda è che cosa accade se la cartella – o il provvedimento che dispone il fermo (per l’ipoteca… boh! ) – non indica i giudici davanti ai quali rivolgersi per contestare il provvedimento impugnato, con specificazione dei relativi termini.

Ferma restando la translatio iudicii suggerita dal Supremo Collegio, come sopra visto, ci si può domandare se tale omissione non sia vizio autonomamente censurabile dell’atto impugnato e quali conseguenze derivino dalla presenza di tale vizio.

Certo l’esattore non dovrebbe potersela cavare suggerendo di rivolgersi al giudice competente; perché, sarebbe forse possibile rivolgersi in modo proficuo al giudice incompetente?

Qualcuno si sarà forse domandato quale sia la ragione tecnica che ha spinto la Cassazione a pronunciarsi nel senso sopra illustrato.

La ragione tecnica è che la Visco Bersani ha modificato l’articolo 19 del DLT 546/92 cioè la norma sugli atti impugnabili, ma non l’art. 2, cioè la norma sulla giurisdizione.

Se lo avesse fatto, la Visco – Bersani sarebbe stata incostituzionale (v. le pronunce della Corte Costituzionale n° 64 e n° 130 del 2008).

Anche se dal punto di vista formale il ragionamento non è censurabile, mi si consenta di supporre (absit iniuria verbis) di assistere ad un conflitto di poteri tra Giudice Ordinario e Giudice Tributario e, come dice un proverbio africano, quando due elefanti si azzuffano ci va di mezzo l’erba.

La depurazione è una tassa? no… e quindi?

 La depurazione è una tassa?

La risposta sembra semplice: dal 1994 esiste – o dovrebbe esistere – il servizio idrico integrato, formato dai servizi di captazione, adduzione e distribuzione dell’acqua (v. l. 36/1994).

Per il servizio si esige il pagamento di una tariffa che è il corrispettivo del servizio.

Fognatura e depurazione costituiscono quota di tariffa.

Nel momento in cui si parla di corrispettivo del servizio si deve dedurre che, se il servizio non è prestato, il corrispettivo non è dovuto.

In realtà così non è – o meglio non era fino a poco fa – perché la legge del 1996 a cui si faceva riferimento stabiliva anche che “la quota di tariffa riferita al servizio di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi“.

Quindi, anche là dove non c’è il depuratore, la depurazione va pagata. O, per meglio dire, andava pagata.

Infatti, con recentissima Sentenza 335/2008, la Corte Costituzionale ha affermato che la norma sopra citata ed anche quelle successive che l’hanno riprodotta in pratica tal quale (e cioè l’art. 28 della legge 31 luglio 2002, n. 179 e l’art. 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) sono incostituzionali in quanto violano l’art. 3 della Costituzione.

Questo, in estrema sintesi e con qualche inevitabile semplificazione, il ragionamento delle Corte Costituzionale.

Il cittadino stipula con l’ente che gli fornisce l’acqua una banale contratto di somministrazione.

Si tratta di un contratto di diritto privato, né più né meno, a causa del quale se c’è una prestazione c’è un corrispettivo (determinato dall’autorità, ma questo è un altro discorso), se non c’è una prestazione no.

Ne consegue che se il cittadino non usufruisce di un depuratore, non deve pagare la depurazione.

La corte si è anche posta un altro problema: se non c’è un depuratore, questo può essere costruito coi soldi degli utenti, riscossi proprio tramite le bollette. È giusto quindi imporre agli utenti un sacrificio economico in vista di un bene pubblico da costruire?

La risposta è no.

Secondo le leggi in questione (non tanto quella del ’94, quanto quelle successive), il denaro riscosso tramite bolletta è destinato alla realizzazione di un piano d’ambito, ma tale denaro viene chiesto non in considerazione del possibile costo del depuratore da costruire, ma del costo della (inesistente) depurazione tout court. Quindi, non c’è corrispettività tra costo della depurazione e costo del depuratore da costruire. In secondo luogo, il denaro riscosso può essere destinato alla realizzazione di depuratori non utilizzabili dal singolo utente obbligato al pagamento. Quindi, ancora una volta, non c’è corrispettività. In terzo luogo il denaro riscosso per la depurazione va al Comune, ma non è detto che sia il Comune a gestire il servizio idrico; la decisione su come e dove costruire il depuratore spetta a terzi: Province etc. L’utente non ha alcun potere su tale scelta, che viene decisa dall’autorità d’ambito, formata da Comuni e Province. Quindi, ancora una volta, non c’è corrispettività. Infine è da escludersi che le entrate in questione siano una tassa, un tributo, posto che si tratta di corrispettivo di tariffa e la tariffa è un unicum inscindibile che comprende somministrazione vera e propria d’acqua, fognatura e depurazione.

Pertanto – queste le conseguenze pratiche della Sentenza – se non c’è un depuratore la depurazione non va pagata.

Se invece l’acqua è depurata la somma è dovuta.

Sorge spontanea una domanda: che cosa accade alle somme pagate a titolo di depurazione in assenza di depurazione? – sempre che non si tratti di fattispecie già coperte da giudicato.

Bollo auto: le decisioni della regionale

Come forse qualcuno ricorderà, tempo addietro la CTP di Milano ebbe a pronunciarsi sulla regolarità formale degli atti di accertamento inviati dalla Regione Lombardia per richiedere il pagamento del bollo auto, rilevandone, in sintesi, la genericità e la non conformità allo statuto del contribuente.

Con recente  Sentenza la CT Regionale si è occupata ancora della questione.

La CTR ha ancora una volta rilevato che “l’avviso è redatto in forma stereotipata… non soddisfa l’obbligo , posto a carico dell’Ufficio (Regione), di indicare gli specifici motivi dell’accertemento stesso…  per identico caso (NB) la Regione ha fatto acquiescenza …” ed ha annullato l’avviso.

Va da sè  che il principio vale per gli avvisi identici a quello in esame e cioè affetti dagli stessi vizi di genericità ed incompletezza.

La CT Regionale, di proprio, ha aggiunto che esiste un obbligo, posto a carico dell’Ufficio (Regione) di specificare i motivi dell’accertamento, negando che l’avviso di accertamento stesso possa essere una “presunzione di omesso pagamento“.

Un altro colpo, dunque (ma quanti ne occorreranno ancora?) alla concezione secondo la quale gli atti di accertamento sarebbero provocationes ad opponendum, concezione, quest’ultima, non certo in linea con lo Statuto del contribuente, ma che ancora tenacemente resiste in molti organi ed uffici.

  

Si muove – ancora – la giurisdizione sul fermo amministrativo

 La materia sulla giurisdizione in punto di fermo amministrativo non pare conoscere requie.

Come si sa il legislatore era intervenuto con la Visco – Bersani (l. 296/2006) affermando che, tanto in tema di ipoteca quanto in tema di fermo doveva essere affermata la giurisdizione tributaria.

Sembrava, in questo modo, che la questione del riparto di giurisdizione fosse in qualche maniera definita.

E invece no.

Con l’ordinanza 5/6/2008 n° 14831 il supremo collegio pare tornare all’impostazione precedente alla Visco Bersani ed affermare che, in caso di impugnazione di fermo amministrativo od ipoteca

  • se si tratta di fermo amministrativo – od ipoteca – disposti per entrate tributarie sussiste la giurisdizione tributaria
  • se si tratta di fermo amministrativo – od ipoteca – disposti per altre entrate è competente il giudice che sarebbe competente per il merito (nel caso in esame si trattava di crediti INPS e quindi la Cassazione ha affermato la giurisdizione del Giudice Ordinario del Lavoro).

La ragione addotta dalla Cassazione deriva da una lettura “costituzionalmente orientata” delle disposizioni legislative in materia (in specie degli artt. 2 e 19 DTL 546/92) e della relativa interpretazione giurisprudenziale.

E’ necessaria un po’ di storia.

Il fermo e l’ipoteca (e questo è l’unico punto sicuro ormai da tempo) sono “mezzi preordinati all’esecuzione forzata” esattoriale, che servono a bloccare i beni del debitore in vista del successivo pignoramento (es. Cass. SSUU 2053 e 14701/06).

I concessionari della riscossione riscuotono, però, non solo tributi, ma anche altre entrate. L’ordinanza in commento muove da un caso di riscossione di contributi INPS, ma basti pensare alla riscossione delle sanzioni amministrative (es. multe) che la Cassazione espressamente cita.

Dopo ondivaghi orientamenti (e dopo che le SSUU sembravano aver adottato un indirizzo uniforme) la Visco Bersani:

•-         ha affermato che fermo ed ipoteca sono atti impugnabili autonomamente

•-         ha affermato che andavano impugnati innanzi al Giudice Tributario.

Quindi, a prescindere dalla natura dell’entrata riscossa (contributo inps, tributo, multa, canone acqua etc.) il fatto che la stessa fosse riscossa mediante ruolo e che quindi si potessero disporre fermo ed ipoteca, valeva a radicare la Giurisdizione Tributaria.

A questo punto si deve necessariamente aprire un inciso: il legislatore sta ultimamente allargando la Giurisdizione Tributaria a materie che, prima, erano da essa escluse.

Quindi, aveva attribuito alla Giurisdizione Tributaria le controversie in materia di COSAP (l. 248/2005) e di sanzioni irrogate da uffici finanziari (sia che si trattasse di sanzioni tributarie, sia che si trattasse di sanzioni non tributarie).

Orbene: la Corte Costituzionale con le Sentenze 64 e 130 del 2008 ha affermato che tale “allargamento” della Giurisdizione Tributaria è illegittimo per violazione dell’art. 102 della Costituzione.

Ciò in quanto “la giurisdizione del Giudice Tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto“. Niente rapporto tributario, niente giurisdizione tributaria. Diversamente, saremmo di fronte ad un giudice speciale.

Applicando tale principio (niente rapporto tributario, niente giurisdizione tributaria) al caso in esame (fermo / ipoteca) ne deriva quanto sopra già anticipato: bisogna verificare la natura del rapporto sostanziale per cautelare l’esecuzione del quale fu disposto il fermo o l’ipoteca ed affermare la giurisdizione del Giudice Tributario solo se fermo od ipoteca furono disposti per riscuotere tributi. Se non lo sono, bisogna vedere caso per caso.

E del resto, afferma (più o meno) la Suprema Corte, quello tributario è processo a contraddittorio più ridotto rispetto a quello ordinario (es: non è ammessa la prova per testi), quindi, là dove non si tratta di tributi è meglio concedere al cittadino una tutela più ampia.

Il dictum si segnala anche per l’analisi dei risvolti pratici

Che cosa succede se un fermo viene impugnato davanti alla Commissione Tributaria Provinciale anche se non riguarda tributi? In tal caso il Giudice “declinerà la propria giurisdizione rimettendo la causa davanti al giudice competente“.  Affermazione logicamente ineccepibile che trascura forse, sul piano pratico, i profili connessi agli oneri ed agli onori legati alla translatio iudicii.

E come regolarsi in caso di cartelle (io le chiamo “plurioffensive”) con cui si riscuotono più entrate? (es. con un un’unica cartella si riscuotono multe, contributi INPS, tributi ,etc.). Il Giudice adito dovrà separare i giudizi e disporre la translatio per quelli rispetto ai quali è privo di giurisdizione. Decisione ineccepibile sul piano logico che, sul piano pratico, trascura almeno due inconvenienti: il lavoro spesso certosino cui l’interprete sarà costretto per individuare la giurisdizione e (ancora) tempi e costi della riassunzione.

Volendo scendere ancor più “terra terra” si potrebbe considerare che, spesso, le cartelle (e quindi fermi ed ipoteche) sono disposti per importi trascurabili (poche centinaia di euro). Ebbene, per simili importi quanti giudizi si dovranno sostenere?

E ancora: che cosa si dovrà scrivere sugli atti che comunicano l’iscrizione del fermo/ ipoteca? Impugna per questo credito davanti ad X, per quest’altro davanti ad Y ? che cosa accadrà in caso di mancata od erronea od incompleta indicazione? Ci si troverà di fronte ad un vizio di forma tale da inficiare l’atto?

Operativamente, sarà forse bene ricorrere davanti al Giudice che sull’atto impugnato (iscrizione di fermo od ipoteca) viene indicato competente. Se lo sarà, tale rimarrà. Se non lo sarà, in tutto o in parte, ci sarà la traslatio iudicii. E, forse, si potrà pure dedurre un vizio di forma dell’atto impugnato.

Certo, ci sarà da tenere d’occhio la giurisprudenza.

Il condominio in frantumi e l’opinione (personalissima) dello scrivente.

Spronato dai commenti, e anche dal fatto che, forse, qualche utente del diritto frequenta questo sito, oserei esporre il mio personalissimo parere sulla Sentenza delle SSUU che afferma la natura parziaria delle obbligazioni del condominio.

E’ tesi, anzi, ancor meno: riflessione affatto personale;  il principio della Cassazione a Sezioni Unite è quello espresso nella Sentenza di cui sopra.

Quanto segue è idea mia, forse totalmente, forse parzialmente sbagliata  (non oso dire: forse giusta), sicuramente aperta a contributi e revisioni – anche radicali.

Si è visto che la Cassazione a SSU parte dal concetto di divisibilità dell’obbligazione pecuniaria del condominio verso il fornitore per dedurre la parziarietà di tale obbligazione.

Volendo essere più realisti del re, osserverei innanzi tutto che posso pulire il 2° piano e non il primo, che posso rifare mezzo tetto – oppure una sola palazzina etc.. Quindi a volte anche l’obbligazione del fornitore è divisibile (tant’è che spesso viene pagata a Stato Avanzamento Lavori), ma non è tanto questo il punto.

Il punto è che mi pare che il codice (1292 c.c.) dica: l’obbligazione è solidale quando può essere adempiuta in un certo modo etc. etc. Non dice cioè: l’obbligazione solidale è X e, se è solidale (quindi uguale ad X), allora deve essere adempiuta così.

L’obbligazione viene definita solidale in funzione delle peculiari modalità del suo adempimento. Non in funzione di sue caratterische intrinseche (chiamiamole pure consustanziali od ontologiche, se ci piace).

La cassazione dice invece: l’obbligazione dei condomini verso il fornitore (ma non viceversa) è divisibile. Anzi, è comodamente divisibile. Quindi non è solidale. Ma il codice non dice mica che le obbligazioni solidali debbano essere necessariamente indivisibili. Anzi, di indivisibilità non parla proprio.

Dice solo che la prestazione deve essere una; letteralmente, “la medesima”. Ma ciò non vuol dire “divisbile”.

Anzi – e maggior ragione – se si guarda l’art. 1314 c.c. si legge “se più sono i debitori di una prestazione divisibile e l’obbligazione non è solidale…” allora l’adempimento è parziario. Segno (secondo me) che ci possono essere obbligazioni divisibili solidali e obbligazioni divisibili parziarie.
Ma divisibilità non vuol dire affatto automaticamente parziarietà.
Prova ne sia che il successivo art. 1317 c.c. afferma “le obbligazioni indivisibili sono regolate dalle norme relative alle obbligazioni solidali”.
Se fosse come dicono le SSUU, la norma sarebbe scritta al contrario e cioè “le obbligazioni solidali sono regolate dalle norme sulle obbligazioni indivisibili”. Ma così non è.
Il principio del 1317 cioè non funziona anche all’inverso. Almeno a mio parere.

Quello che le SSUU sottendono – o sottintendono, ma neanche troppo – è, invero, e sempre a mio giudizio, che in realtà il condominio non è un soggetto di diritto unitario. Prova ne sia che criticano la sua qualificazione in termini di “ente di gestione”.
Se il condominio cessa di essere ente unitario allora esistono solo i condomini – che, logicamente, non possono essere che tenuti pro quota.
Di qui le conseguenze di cui alla citata Sentenza.

A prescindere da questo, è vero e sacrosanto che il legislatore non dice espressamente che le obbligazioni assunte dal condominio verso terzi sono solidali. Ma non dice nemmeno il contrario.

Una riflessione sui profili fiscali m’induce ad un’altra considerazione: sappiamo che il condominio è sostituto d’imposta e soggetto a taluni tributi.

Orbene: se io condominio non verso la ritenuta d’acconto del 4% o non adempio ai mei obblighi fiscali in generale, allora il fisco – seguendo il ragionamento della Cassazione – dovrebbe prenderesela pure lui pro quota con singoli condomini insolventi (e mi vien fatto di pensare alla tarsu, alle sanzioni comminate perchè Tizio Caio o Sempronio non separano la spazzatura etc. etc.)

Non mi pare logico che per il fisco il condominio sia un soggetto unitario, mentre per il sig. Giovanni che ha un impresa edile, no.

Quindi se il comune, per entrate sue non tributarie, pignora l’appartamento del sig. Mario perchè il condominio a cui il Sig. Mario appartiene non paga un’imposta, il sig. Mario potrà proporre opposizione all’esecuzione, con la certezza di vincerla (soprattutto in Cassazione …).

Per quanto riguarda le entrate tributarie, per le quali l’opposizione all’esecuzione non è ammessa, il sig. Mario potrà chiedere i danni ad Equitalia perchè gli ha pignorato la casa per un debito non suo e generato da un’insolvenza di cui non ha alcuna colpa.

Al di là della battuta (è fin troppo facile criticare i rivolti pratici della Sentenza in commento) mi pare che il legislatore consideri sotto più aspetti il condominio come centro unitario d’imputazione di rapporti giuridici (visto che non si vuole chiamarlo ente di gestione).

E i giudici sono soggetti solo alla legge. Non alla cassazione. Neppure alle SSUU.

Visto che, tutto sommato, mi pare sostenibile che il condominio sia centro unitario di rapporti giuridici (ma poi magari m sbaglio, resto in attesa di pareri contrarii) resta da verficare se l’equivalenza  divisibilità = parziarietà sia così pacifica, logica, insormontabile.

Secondo me, no. Ma non so che ne pensate voi…