Edilizia residenziale pubblica: secondo il TAR Lombardia, prima di “cacciare” di casa l’occupante abusivo, l’Amministrazione deve accuratamente esaminare le sue condizioni soggettive

Con un’interessante ordinanza ottenuta dal nostro studio(la n.1502/2011 del 28 settembre 2011) il TAR Lombardia, Sezio Prima, occupandosi del caso di un soggetto gravemente disabile occupante abusivo di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, ha stabilito l’importante principio per il quale l’Amministrazione, prima di notificare il decreto di rilascio dell’immobile occupato, non può prescindere da un previo accurato esame delle sue condizioni soggettive (sanitarie ed economiche in particolare).
Dave in sostanza essere esclusa ogni forma di automatismo.
Nel caso in esame l’amministrazione aveva dichiarato di agire ai sensi e per gli effetti dell’art. 24 del regolamento regionale 10 febbraio 2004, n.1.
Sennonché detta norma sembra autorizzare l’amministrazione all’esercizio di un potere vincolato senza che possano trovare alcun rilievo le condizioni personali, familiari ed abitative degli interessati e con l’ulteriore effetto distorsivo dell’apparente preclusione rispetto alla possibilità di accedere regolarmente ad un nuovo alloggio attraverso i bandi comunali.
Pertanto, qualora tale norma venisse interpretata, come in effetti fatto dal Comune, secondo un criterio squisitamente letterale, evidente sarebbe il suo contrasto con la Costituzione nonché con numerose norme del diritto internazionale pattizio e del diritto europeo (ormai fonti primarie del diritto dell’Unione europea o comunque vincolanti ex art. 117 comma 1 della Costituzione) che delineano l’esistenza di un vero e proprio diritto all’abitazione ovvero all’assistenza abitativa che si pone irrimediabilmente in contrasto con l’apparente “automatismo” della norma regolamentare regionale in tema di rilascio. Continua a leggere

Il balcone “aggettante” – ossia che non serve né come copertura né come sostengo dell’edificio – di chi è?

Con la recente Sentenza 5 gennaio 2011, n. 218 la Cassazione è tornata sulla titolarità del diritto di proprietà dei balconi aggettanti, cioè che non servono né come copertura né come sostengo dell’edificio.

La Suprema Corte ha affermato che essi sono di proprietà esclusiva dell’appartamento al quale ineriscono.

Ciò in quanto, come si legge dalla motivazione, “la c.d. presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 cod. civ. si basa sul carattere strumentale ed accessorio dei beni ivi indicati rispetto alle unità di proprietà esclusiva dei condomini”.

Conseguentemente – prosegue sempre la motivazione – “I balconi “aggettanti”, i quali sporgono dalla facciata dell’edificio, costituiscono solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono e, non svolgendo alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell’edificio – come, viceversa, accade per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio – non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani; pertanto ad essi non può applicarsi il disposto dell’art. 1125 cod. civ.: i balconi “aggettanti”, pertanto, rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono”.

Nello stesso senso si sono espresse Cass. 15913/2007; 14576/20046; 637/2000; 8159/1996.

 

Se invece, a contrario, il balcone serve come  sostegno o copertura dell’edificio allora è di proprietà comune e si applica il disposto dell’art. 1125 c.c. per cui “Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto”.

Privacy e condominio. No alla “gogna” per i condomini morosi.

 In un condominio l’amministratore affigge in bacheca i nomi dei condomini morosi.

Uno di costoro cita in giudizio il condominio chiedendo i danni e lamentando la violazione della privacy (Dlt. 196/2003).

Il Tribunale respinge la domanda del condomino e questi ricorre in Cassazione.

La Suprema Corte cassa la Sentenza dando ragione al condomino ed afferma che i dati dei condomini sono dati personali che possono essere trattati anche senza il consenso dell’interessato, ma il loro trattamento deve avvenire rispettando i principi di “proporzionalità pertinenza e non eccedenza rispetto ai fini per i quali sono raccolti“.

Insomma: non devono essere usati a sproposito.

Affiggerli in bacheca consente anche a soggetti estranei al condominio di sapere che uno dei condomini non paga le spese condominiali e i terzi non hanno questo diritto. Inoltre, rendere edotti gli estranei di tale morosità non giova in alcun modo né alla vita né al bilancio condominiale, finendo invece per ledere la riservatezza del moroso.

Esporre in bacheca i dati dei morosi, insomma, costituisce un’indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile.

In questo senso si esprime l’ordinanza 186 della Cassazione depositata il 4/1/2011.

Va peraltro ricordato che secondo una risoluzione del garante della privacy l’amministratore può segnalare i nominativi dei condomini morosi ai fornitori non pagati onde evitare che costoro aggrediscano esecutivamente i condomini che hanno già pagato la loro quota.

Coordinare i due principi in realtà appare semplice. Se diffondere i dati dei morosi è utile alla vita del condominio e la diffusione è fatta con criterio allora è lecita, diversamente no.

Una pronuncia di cui probabilmente si sentiva il bisogno onde evitare abusi.       

Ampliati (con giudizio) i poteri dell’amministratore nelle controversie condominiali

Con la recente Sentenza 18311 del 6/8/2010 le Sezioni Unite della Cassazione intervengono su una questione spinosa ed in relazione alla quale esistevano, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, due orientamenti contrapposti.

Questa la domanda: può l’amministratore, senza autorizzazione dell’assemblea, costituirsi in giudizio od impugnare decisioni sfavorevoli al condominio?

Le Sezioni Unite hanno risposto in senso affermativo, sposando l’orientamento maggioritario, ma hanno anche imposto all’amministratore di informare l’assemblea per far ratificare il suo operato. In difetto di tale ratifica, l’impugnazione o la costituzione in giudizio devono essere dichiarate inammissibili.

Ma non solo.

L’amministratore che violi tale dovere d’informativa è responsabile dei danni che il condominio dovesse subire.

Discorso diverso, invece, per il caso in cui è il condominio ad agire, cioè per il caso in cui non si limita a contrastare un’azione giudiziale altrui impugnando e costituendosi in giudizio, ma per così dire (la definizione è un po’ imprecisa, ma spero più comprensibile) “agisce per primo”.

In questo caso l’autorizzazione dell’assemblea è necessaria prima d’instaurare il giudizio.

Limitando la disamina ai punti più salienti della Sentenza.

Premesso che in materia di condominio negli edifici, l’organo principale, depositario del potere decisionale, è l’assemblea e che l’essenza delle funzioni dell’amministratore è imprescindibilmente legata al potere decisionale dell’assemblea, le SSU affermano a chiare lettere che anche in materia di azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea che dovrà deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere all’amministratore. Tuttavia l’amministratore ha per legge una rappresentanza passiva … estesa a qualunque azione proposta contro i condomini, e pertanto anche alle azioni di carattere reale, purché si riferiscano alle parti comuni. Questa rappresentanza passiva ha carattere generale che gli viene attribuita dall’art. 1131 2°comma c.c. Secondo le SSUU, tale legittimazione rappresenta il mezzo procedimentale per il bilanciamento tra l’esigenza di agevolare i terzi e la necessità di tempestiva (urgente) difesa (onde evitare decadenze e preclusioni) dei diritti inerenti le parti comuni dell’edificio, che deve ritenersi immanente al complessivo assetto normativo condominiale. Pertanto L’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione dall’assemblea, ma dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

La Sentenza è palesemente ispirata, oltre che da ragioni logico – giuridiche, da un criterio di buon senso. È frequente che, dato che i termini processuali sono stretti, l’amministratore non abbia il tempo di indire l’assemblea oppure che non si raggiungano i quorum. In tali occasioni di “emergenza processuale” l’amministratore, per evitare pregiudizi può quindi agire subito.

Però deve avvisare i condomini appena possibile (le SSUU non dicono esplicitamente quando: è lecito dedurre che tale subito possa essere “la prima assemblea utile”, ma non è da escludere che si possa anche configurare il dovere, per l’amministratore, d’indire un’assemblea straordinaria. Soprattutto, deve limitare l’uso di questo potere eccezionale ai casi in cui, per così dire, il condominio è “attaccato” giudizialmente o da una causa promossa da qualcuno oppure da una Sentenza sfavorevole.

Dato che non erano questioni su cui dovevano decidere, le SSUU lasciano aperti almeno due problemi: che cosa succede agli atti compiuti se l’operato non viene ratificato e a quali conseguenze patrimoniali va incontro l’amministratore che viola il dovere di informativa.

Quanto alla prima domanda (efficacia degli atti) ritengo che essi, anche se perdono efficacia processuale, potrebbero mantenere una qualche forma di efficacia sostanziale perché l’oggetto dell’assemblea, se non diversamente precisato, riguarda l’azione, non il diritto.

 Quanto alla seconda domanda (conseguenze per l’amministratore che violi il dovere d’informativa), la Suprema Corte ha espressamente affermato che tale omissione è giusta causa per la revoca del mandato ad amministrare (l’amministratore “silenzioso” potrebbe quindi essere sfiduciato), mentre quanto ai “danni” reputo che essi vadano valutati tenendo presenti tutte le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’instaurazione di un giudizio non autorizzato (che in teoria potrebbero però anche non esserci perché un contumace non è necessariamente perdente in giudizio).        

Casa nuova, spese condominiali vecchie.

 È buona norma ricordarsi il disposto dell’art. 63 disp. Att. c.c. che prescrive “Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente“. Per questa ragione, è buona norma, quando si compra casa, chiedere il c.d. “certificato di pagate spese”, cioè un’attestazione che acclari che il venditore è in regola coi pagamenti condominiali.

E se non accade?

Come sopra letto, il condominio può chiedere ad acquirente e compratore il pagamento delle spese condominiali predette (cioè quelle relative all’anno in corso ed a quello precedente).

Come?

La Cassazione, confermando un precedente orientamento, esclude che il condominio possa chiedere un Decreto Ingiuntivo ad un ex condomino.

Con la recente Sentenza 23686/09 – sezione II – ha affermato che non esiste il “condomino apparente”. “L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali ex art. 1104 c.c. è collegato al rapporto di natura reale che lega l’obbligato alla proprietà dell’immobile”, quindi “alla perdita di quella qualità consegue che non possa essere chiesto né emesso nei suoi confronti decreto ingiuntivo” (conforme v. Cass. 23345/2008)

Ovviamente, questo non significa che il venditore moroso non debba pagare.

A così ritenere, infatti, si finirebbe per abrogare l’art. 63 disp. Att. sopra citato.

Su questo punto la cassazione ha così affermato “l’obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio deriva non dalla preventiva approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, atteso il carattere meramente dichiarativo di tali delibere, ma dal momento in cui sia sorta la necessità della spesa ovvero la concreta attuazione dell’attività di manutenzione e quindi per effetto dell’attività gestionale concretamente compiuta e non per effetto dell’autorizzazione accordata all’amministrazione per il compimento di una determinata attività di gestione, cfr. tra le altre Cass. 12013/2004 (v. In motivazione); 6323/2003; 4393/1997.

L’obbligazione di corrispondere i contributi relativi al godimento dei beni e dei servii comuni può qualificarsi reale, nel senso che la titolarità del soggetto passivo è determinata in base al rapporto di natura reale esistente con la cosa al momento in cui sorge l’obbligazione” Giustamente, quindi si afferma “l’esistenza del credito azionato nei confronti del venditore  in quanto relativo alla gestione di beni e di servizi condominiali concernente un periodo di tempo anteriore alla vendita dell’appartamento“. (v. sempre Cass. 23345/2008) .

Quindi, l’ex condomino può essere richiesto del pagamento, ma non con un Decreto Ingiuntivo, che può essere pronunciato solo contro l’attuale condomino.

Se ne può dedurre che contro l’ex condomino sia possibile un atto di citazione ordinario.  

Il condominio in frantumi e la notifica del titolo esecutivo

Qualche tempo fa, commentando la nota Sentenza delle SSUU circa la fine, almeno per certi versi, della solidarietà tra condomini in materia condominiale, ci si domandava “Sul piano processuale (ma qui è d’obbligo procedere con molta cautela) si potrebbe porre il problema della notifica del titolo esecutivo” e si restava in attesa di pronunce della giursprudenza che affrontassero la questione.

Una  delle prime in materia è la Sentenza 11/3/2009 n° 6693 del Tribunale di Napoli.

Il caso era quello di un soggetto che aveva ottenuto un Decreto Ingiuntivo contro un condominio e, non pagato, aveva notificato atto di precetto ad un condomino.

Questi si opponeva eccependo che nessuno aveva mai notificato a lui il decreto ingiuntivo in forma esecutiva.

Il decreto era stato notificato infatti al condominio, ma mai al condomino.

Il Giudice ha ritenuto che non sia dubbia la c.d. efficacia espansiva del titolo esecutivo, ma sia incerto se, prima di procedere contro il singolo condòmino, sia necessario notificare anche a lui personalmente il Decreto.

Il giudice partenopeo ha risolto il dubbio rispondendo di no.

Secondo il Giudice è sufficiente che il creditore notifichi il titolo esecutivo al condominio. Una volta soddisfatto questo incombente, il creditore può agire in executivis contro il singolo condòmino.

Ciò in quanto l’art. 654 c.p.c., che esclude la “rinotifica” del titolo ai fini dell’eecuzione è norma speciale  che prevale sulla norma generale di cui all’art. 479 c.p.c.

La dottrina (v. nota di Ghigo Giuseppe Caccia in “Altalex” articolo del 9/10/2009) opina che la norma di cui all’art. 654 si riferisce al caso in cui il debitore è sempre lo stesso, mentre, nel caso di specie, il titolo è stato notificato prima ad un soggetto (il Condominio) e poi ad un altro soggetto (il condòmino) distinto dal primo.

Dal punto di vista teorico, per quanto possa valere l’opinione personale dello scrivente, l’obiezione coglie nel segno. Anzi, si può andare ancora oltre. Se si ritiene che l’obbligazione del condòmino sia parziaria (come affermano le SSUU) e che condòmino e condominio siano soggetti non confondibili, si potrebbe anche sostenere che, per poter agire nei confronti del singolo, è necessario notificargli un titolo esecutivo “parziario” e specificamente diretto contro di lui per la quota che lo riguarda.  A giudizio di chi scrive, se si ragionasse diversamente (come si può dire faccia il Tribunale di Napoli) si perverrebbe ad una specie di “notifica collettiva ed impersonale” al di fuori dei casi di successione iure hereditario.   Tale procedura, siccome (ancora una volta) speciale, non può, sempre a parere dello scrivente, essere applicata in via estensiva al di fuori delle succesioni mortis causa.

Al di là delle riflessioni teoriche, tuttavia, la prassi è allo stato orientata nel senso che sembra. La ragione potrebbe essere (e, in un punto, la Sentenza in commento lo suggerisce) l’esigenza di una “maggiore speditezza” del processo esecutivo.

Tale esigenza non può essere tenuta in non cale, sicchè sarà interessante verificare se e quali altri Tribunali aderiranno all’orientamento di quello di Napoli e quale altro orientamento seguiranno le Corti superiori.

Forse (?) si potrebbe arrivare a porre nuovamente la questione all’attenzione della Suprema Corte, magari suggerendo una “rimeditazione” della Sentenza SSUU 9148/2008.

E’ fuori di dubbio, infatti, che tale pronuncia, oltre a sollevare numerosi problemi, moltiplica i procedimenti (ed i relativi costi).

A tale proliferazione di contenzioso cerca di rimediare, quantomeno sul piano esecutivo, la pronuncia del Tribunale di Napoli qui commentata.

  

Il Consiglio di Stato si pronuncia nuovamente sullo schema di decreto interministeriale per le transazioni

Pubblichiamo il nuovo parere, questa volta definitivo, emesso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto interministeriale per le stipulande transazioni per il risarcimento del danno biologico nonchè lo schema di decreto interministeriale sulla cui base i giudici di Palazzo Spada dovrebbero essersi espressi.
A prestissimo per le prime riflessioni

Il nuovo parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto interministeriale

Lo schema di decreto interministeriale per le stipulande transazioni

Uso del cortile condominiale come parcheggio e regolamento di condominio.

 Questo il caso: un regolamento condominiale non trascritto vieta di utilizzare il cortile condominiale come parcheggio. Nondimeno, taluni condomini sono soliti parcheggiare in luogo i propri veicoli.

Sorge una controversia che, dal Giudice di Pace, finisce in Cassazione.

La suprema corte così afferma: le norme da prendere in considerazione sono  l’art. 1102 c.c. e l’art. 1117 c.c.

La prima  norma afferma che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso” (1102 c.c.) mentre la seconda norma elenca le cose comuni, tra le quali ci sono i cortili.

La Cassazione ha affermato che usare il cortile condominiale come parcheggio è utilizzo compatibile con il principio affermato dall’art. 1102 e sempre che siano rispettati i limiti imposti da detta norma. Testualmente, afferma la corte, “un tale divieto (cioè quello di usare il cortile come parcheggio) non si può ricavare dal disposto dall’art. 1102 ” .

Mi pare opportuno integrare la pronuncia con due osservazioni.

La prima è che sta ai condomini la facoltà di disciplinare l’uso della cosa comune – e penso per esempio alle disposizioni regolamentari in materia di carico e scarico merci, ai giochi dei bambini etc..

La seconda è che tali limiti rappresentano, ad avviso dello scrivente, disposizioni regolamentari (sulla distinzione tra disposizioni regolamentari e contrattuali v. per esempio Cass. 14/8/2007 n°17694) come tali modificabili ex art. 1136 c.c.

Per quanto è dato ricostruire dallo “svolgimento del processo” della Sentenza di cui sopra, i giudici hanno attribuito al divieto assoluto di utilizzo del cortile condominiale natura di disposizione contrattuale e come tale modificabile solo con l’unanimità dei condomini ed opponibile agli stessi ed ai loro aventi causa solo se trascritta.

Poiché, nel caso in esame, il regolamento non era stato adottato all’unanimità e, soprattutto, non era stato trascritto, la Cassazione ha confermato la Sentenza del giudice di Pace che aveva ritenuto inefficace il divieto assoluto di parcheggio.     

Le strade sono piene di buche: chi paga?

 Le strade sono piene di buche. I tribunali ed i giudici di pace sono pieni di cause che riguardano il risarcimento dei danni chiesto da chi è caduto in una di quelle buche.

Va subito detto che in pochi settori come questo la giurisprudenza, anche della Cassazione, è stata incostante. Verrebbe da dire che ha sbandato di qua e di là.

In linea di massima, si può dire che le pronunce oscillano tra due soluzioni diverse.

Un primo orientamento afferma che il proprietario della strada risponde ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c.

Un secondo orientamento afferma che il proprietario della strada risponde ai sensi e per gli effetti dell’art. 2051 c.c.

Non è un distinguo di poco conto, perché l’art. 2043 dispone che “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno“. L’art. 2051 c.c., invece, dispone che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito“.

Quindi: se si applica l’art. 2043 c.c. l’attore – cioè chi è caduto nella buca ed ha poi fatto causa – deve provare tutto (caduta, nesso causale e conseguenze), se invece si applica l’art. 2051 c.c. si presume che il proprietario della strada sia responsabile a meno che non ci sia un caso fortuito.

Per moltissimo tempo, e fino ad oggi, si può dire, la giurisprudenza ha ritenuto che la norma da applicare sia l’art. 2043 c.c.

A questo proposito la giurisprudenza ha elaborato il criterio della insidia o trabocchetto, cioè un pericolo occulto ed imprevedibile.     (v. a tale proposito Cass. civ., Sez. III, 29/04/2006, n.10040)

Allo stesso tempo, però, la stessa giurisprudenza ha ritenuto opportuno operare una distinzione: se la strada ha un’estensione tale che per la pubblica amministrazione è impossibile controllarla, si applica l’art. 2043 c.c., altrimenti l’art. 2051 c.c..( Cass. civ., Sez. III, 08/03/2007, n.5308). A tale proposito, la giurisprudenza parla di res extensa.

Altre Sentenze proponendono per un’interpretazione più estesa dell’art. 2051 c.c. (Cass. civ., Sez. III, 20/02/2006, n.3651,    Cass. civ., Sez. III, 07/10/2008, n.24755 Cass. civ., Sez. III, 06/06/2008, n.15042)

Secondo tali pronunce, in caso da caduta sul manto stradale, la responsabilità della pubblica amministrazione è “aggravata” (secondo alcuni, addirittura “oggettiva”) e la stessa pubblica amministrazione può liberarsi di tale responsabilità solo se riesce a provare il caso fortuito, cioè il “fatto estraneo alla sfera del custode, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di inevitabilità” (Cass. civ., Sez. III, 07/10/2008, n.24755). Peraltro “Essendo detti beni particolarmente esposti a fattori di rischio non prevedibili e non controllabili dal custode, perché determinati dai comportamenti del pubblico indiscriminato degli utenti – che il custode non può escludere dall’uso del bene e di cui solo entro certi limiti può sorvegliare le azioni – il caso fortuito, idoneo ad esimere da responsabilità il custode di beni demaniali, va individuato in base a criteri più ampi ed elastici di quelli che valgono per i beni privati ” (Cass. civ., Sez. III, 06/06/2008, n.15042).

La Cassazione è tornata ancora di recente sul tema con la Sentenza 2/12/2008 – 23/1/2009 n° 1691.

Tale pronuncia sposa la tesi secondo la quale ai casi in esame (la fattispecie in questione riguardava un motociclista caduto su una macchia di gasolio) si applica l’art. 2051 c.c. e si segnala perché, per la Cassazione, l’art. 2051 “è applicabile nei confronti dei comuni quali proprietari di strade pur se tali beni siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo. La “zonizzazione” comporta per il comune un maggior grado di possibilità di sorveglianza e di controllo sui beni del demanio stradale, con conseguente responsabilità del comune stesso per i danni da esso cagionato salvo il ricorso al caso fortuito. Né può sostenersi che l’affidamento della manutenzione in appalto sottrarrebbe la sorveglianza ed il controllo al comune…”.

Quindi, se il Comune appalta la manutenzione od il controllo di talune strade a terzi viene meno il requisito della res extensa di cui si parlava sopra.

La sentenza ha avuto una certa risonanza anche al di fuori della stampa specializzata, accompagnandosi sovente all’invito, neanche troppo celato, a volte, a “fare causa” al comune se si cade in una buca.

Senza dubbio, la Sentenza in commento facilita le richieste di risarcimento, ma le precisazioni sopra svolte (i distinguo della Cassazione, la parziale diversità di orientamenti all’interno della Cassazione stessa) portano ad escludere che si possa parlare di “strada spianata” ai risarcimenti. Indubbiamente, ora è più facile chiederli.        

Il danno esistenziale è morto (?) viva il danno morale(?)

 Come sanno ormai anche i “non addetti ai lavori” le SSUU con una Sentenza recente e notissima (la 26972/2008) hanno statuito – se vogliamo proprio ridurre ad un slogan 59 pagine di Sentenza – che il Danno Esistenziale non esiste.

Il danno, secondo le SSUU è patrimoniale o non patrimoniale ed il c.d. danno biologico è una voce dell’ultimo.

Più precisamente, e trascrivendo quanto le SSUU affermano a pag. 47 (punti 4.8 e 4.9) “il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre… il danno non patrimoniale … identificatosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di divisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale- di cui parlerò oltre – dano biologico, danno da perdita del rapporto parentale etc) risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative si siano verificate sul valore uomo e provvedendo alla loro integrale riparazione. Viene dunque in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente  di un più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo … senza determinare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico …”.

Vale la pena di ricordare che è – anche per il legislatore – “lesione temporanea o permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale che esplica un’incidenza sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico – relazionali del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito“.

Vediamo ora di tirare le fila.

Il danno morale è una sofferenza soggettiva in sé considerata che non determina degenerazioni patologiche. Esso può essere risarcito solo se c’è un reato (che il giudice civile può accertare anche per conto suo, a prescindere da valutazioni del giudice penale).

Vorrei muovere un passo oltre questa definizione che deriva da un’analisi pressoché letterale dei principi enunciati dalle Sezioni Unite.

È ovviamente opinione mia.

In pratica, il criterio sembra essere il seguente: se c’è una patologia psicofisica (e il pensiero corre subito alla “depressione”) siamo all’interno del danno biologico. Se c’è una sofferenza soggettiva che non sfocia in patologia psicofisica (e purché ci sia reato) c’è danno morale.

Tale definizione nasconde però – a mio parere – una debolezza.

Il codice civile, dal quale comunque il giurista deve partire, si fonda su una distinzione corpo / mente piuttosto datata. Il legislatore del 1942 sembra dirci (almeno a mio giudizio): il corpo è una cosa, la mente un’altra.

Le malattie psicosomatiche erano al di là da venire.

Ora come ora il legislatore e la Cassazione ci parlano di integrità psicofisica da risarcire e, ad essa, aggiungono (in realtà, lasciano che sopravviva) un ulteriore risarcimento da lesione morale soggettiva.

In concreto, quindi, sembra tutt’altro che improbabile una Sentenza siffatta: Tizio ha subito una lesione psicofisica a causa di un evento che è anche un reato. Quindi è caduto in depressione. Quindi deve essere risarcito. Però deve essere risarcita anche la sofferenza morale soggettiva – che però bisogna allegare e provare – che va oltre e che non è coperta dal risarcimento del danno biologico.

Tale sofferenza morale, peraltro (come mi piace argomentare sempre da Cass. 26972/08 punto 3.9) non è data da “pregiudizio consistente in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana …”

Insomma: si sa bene che cosa il danno morale non è (non è patologia psicofisica, né “insoddisfazione”). Si sa molto meno bene che cos’è: che cosa vorrà mai dire “sofferenza morale soggettiva da reato”? e, soprattutto, come si prova? Sarà ammissibile il ricorso a presunzioni?

Fermiamoci qui, per ora.

Sempre come tutti sanno il danno morale, se liquidato, nella prassi, è sempre stato ancorato in misura percentuale rispetto al danno biologico (un quarto, un terzo,  etc.).

Andiamo ad esaminare la ancor più recente Sentenza 29191/08 (depositata il 12/12/08) della III Sezione civile della Cassazione.

In fatto, va premesso che il caso si riferisce ad una ipotesi in cui il danneggiato aveva subito lesioni gravissime, pari al 62%!

Qui leggiamo “nel caso di lesioni gravissime… il danno biologico deve essere personalizzato calcolando anche la componente della capacità lavorativa (che, se vogliamo essere coerenti, dovrà essere qualcosa di non patrimoniale?!) … e del danno psichico (ma il danno biologico non risarcisce la lesione dell’integrità psicofisica?) sicché ai valori tabellari della stima statica della gravità del danno… devono aggiungersi in aumento…” e poi “…. trattandosi di lesioni gravissime con esiti dolorosi anche dal punto di vista psichico, la autonoma ontologia del danno morale deve essere considerata in relazione alla diversità del bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale della persona… nella valutazione del danno morale contestuale alla lesione del diritto alla salute, la valutazione di tale voce, dotata di logica autonomia in relazione alla diversità del bene protetto, che pure attiene ad un diritto inviolabile della persona (la  sua integrità morale… ) deve tenere conto delle condizioni soggettive della persona umana e della gravità del fatto, senza che possa considerarsi il valore dell’integrità morale una quota minore del danno alla salute” .

Sembra quasi che la Cassazione stia cercando una “valvola di sfogo”, quasi pentita del rigore con cui ha rintuzzato la categoria del danno biologico e annichilito il danno esistenziale.

Detto in altre parole, sembra quasi che stia cercando di spostare nell’ambito del danno morale, invitando il Giudice di merito a discostarsi dalle tabelle in uso, voci che sembrano stare strette nella categoria dell’integrità psicofisica.

E sembra quasi (ma credo che sia più che un’impressione!) che inviti l’interprete a non sottovalutare la componente psichica del danno biologico.

Questi i principi di diritto cui dovranno (?) attenersi i giudici del merito.

Staremo a vedere come.