Pausa di riflessione

Cari Amici,
dopo l’uscita del decreto-moduli per la definizione transattiva delle cause risarcitorie promosse contro il Ministero della Salute si è scatenata, come prevedibile, una ridda di voci e possibili interpretazioni che ci ha impegnato anche in un serrato confronto tra colleghi, un confronto sui cui contenuti e sui cui risultati mi sembra opportuno mantenere la massima riservatezza.
Ora è il momento di una pausa di riflessione, per ricaricarsi e per mettere bene a fuoco le strategie da adottare nei prossimi mesi, anche alla luce di un’analitica disamina di ogni singola posizione sia dal punto di vista processuale sia sostanziale.
Nei prossimi giorni, come preannunciato, i clienti dello studio riceveranno un’informativa di aggiornamento in vista delle eventuali nuove azioni da intraprendere.
Lo studio, salvo le comprovate urgenze, anche non inerenti alla problematica del sangue infetto (urgenze per le quali sarò comunque rintracciabile) e gli appuntamenti già fissati in precedenza, rimarrà chiuso sino al 2 settembre compreso.
La segreteria tornerà comunque operativa indicativamente dal 27 agosto p.v.
Buone ferie e soprattutto buon meritato riposo a tutti

Avv. Simone LAZZARINI

L’ignoranza tributaria scusa?

Con la recente Sentenza Cass. 8825/2012 la Cassazione è tornata ad affrontare il problema dell’errore sulla norma tributaria e sulla portata esimente di tale errore.

Le norme principali in materia di errore tributario sono

L’art. 8 del DLT 546/92 per cui della “La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.

L’art. 6 DLT 472/997 per cui “Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento”.

L’art. 10 l. 212/2000 (statuto del contribuente) per cui “Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria . Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”.

È evidente che stiamo parlando di SOLE sanzioni – o di sanzioni ed interessi – mai del capitale ingiunto.

Detto questo, si può passare alla esegesi.

La Cassazione precisa che i principi di cui sopra non sono una applicazione, in campo tributario, del principio per cui l’ignoranza della legge – stavolta – scusa.

In effetti, chiarisce il Collegio, non si parla di “ignoranza” (meno che mai di ignoranza soggettiva), ma di “incertezza normativa oggettiva tributaria” cioè una situazione giuridica oggettiva, caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.

In parole povere, il principio non è “se non so di violare una norma tributaria non sono soggetto a sanzioni tributarie”, ma “se la situazione è oggettivamente incerta, non sono soggetto a sanzioni tributarie”.

Sì, ma quando, in concreto, c’è questa incertezza?

La Cassazione viene in aiuto all’interprete e stila un elenco – preoccupandosi di chiarire che non è completo e non esclude che vi possano essere altri casi di “incertezza oggettiva”. Eccolo:

1) nella difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; in parole povere: manca una norma

2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; a parere dello scrivente il criterio, benché importante, è piuttosto lacunoso atteso che la SC non chiarisce che cosa sia “la formula dichiarativa della norma giuridica”. Probabilmente si riferisce alla definizione del presupposto impositivo e/o si riferisce all’ipotesi in cui detto presupposto è difficile da individuare oppure da spiegare o applicare (pensiamo a complicate aliquote ed a casi in cui si sovrappongono fiscalità locale e nazionale). Certo la Cassazione poteva essere più chiara. Anche il concetto di “difficoltà di confezione” non è molto intellegibile. Difficoltà di confezione, per chi? Per il legislatore?

3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; anche qui rimane qualche dubbio sul concetto di “formula dichiarativa”. Certo è che, secondo la Cassazione, se “la formula dichiarativa” è oscura, allora la sanzione non è dovuta. Vien fatto di chiedersi perché sia rilevante solo “la formula dichiarativa” e non la norma intera – interpretazione che potrebbe essere sostenuta estensivamente.

4) nella mancanza di informazioni amministrative o nella loro contraddittorietà; qui la SC è chiara

5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell’adozione di prassi amministrative contrastanti; qui la SC è chiara

6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; visto il continuo susseguirsi di norme è possibile che la giurisprudenza non faccia in tempo a formarsi o stratificarsi.

7) nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei Giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale;  caso tutt’altro che raro e che non abbisogna di spiegazioni.

8) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; la SC è chiara. Va aggiunto che spesso la prassi ignora la giurisprudenza e sovente si pone in contrasto con essa puntando ad ottenere pronunce di secondo o terzo grado.

9) nel contrasto tra opinioni dottrinali; la dottrina ha scarso peso, di solito, ma la norma è chiara.

10) nell’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente. Ipotesi, questa, tutt’altro che infrequente. Ci potrebbero essere dei problemi applicativi ove l’interpretazione del legislatore confermi che una sanzione, nonostante magari un difforme orientamento giurisprudenziale, è dovuta.

Al di à di qualche espressione non facilmente intelligibile, si tratta di una Sentenza che gli operatori del settore soprattutto dovranno tenere presente.

Da ultimo va rammentato che secondo un orientamento  14897/2009) “l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente

Il reclamo – o, per meglio dire, il prericorso tributario – e la mediazione tributaria

A partire dal 1° aprile 2012 è stata introdotta una nuova norma nel processo tributario. Si tratta dell’art. 17bis DLT 546/92.

Questa norma prevede che “Per le controversie di valore non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48. La presentazione del reclamo è condizione di ammissibilità del ricorso. L’inammissibilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

Il legislatore ha introdotto un “filtro” o, per meglio dire, un ulteriore adempimento processuale per una serie statisticamente abbastanza consistente di contenziosi.

Questo adempimento processuale, definito “reclamo” è obbligatorio quando ricorrono due condizioni:

a)      deve trattarsi di controversie che vedono come controparte l’Agenzia delle Entrate

b)      deve trattarsi di controversie di valore pari od inferiore a ventimila euro.

Se manca uno di queste due requisiti, il reclamo non è necessario, anzi, non è possibile.

È bene precisare che, dato che non si tratta di atti dell’Agenzia delle Entrate, non soggetti alla procedura di reclamo:

–         cartella di pagamento. Peraltro ove si contesti la cartella contestando attività propria dell’Agenzia delle Entrate la cartella, secondo quanto sostienela stessa Agenziacon la circolare n° 9 del 19/3/12, diventa soggetta a reclamo. In questi casi si ritiene opportuno avviare il reclamo sia contro l’Agenzia delle Entrate sia – allo scopo d’informarlo – contro l’Agente della Riscossione (Equitalia)

–         avviso di mora di cui alla lett. e) dell’articolo 19, comma 1 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (ipotesi di scuola, dato che è stato abolito da tempo)

–         avviso di intimazione di cui all’articolo 50, comma 2, DPR 29 settembre 1973, n. 602;

–         iscrizione di ipoteca sugli immobili;

–         fermo di beni mobili registrati

–         atti relativi alle operazioni catastali

Sul punto è pienamente condivisibile la tesi espressa dalla Agenzia delle Entrate con la circolare 19/3/12 n°9.

È bene precisare pure che questo nuovo istituto trova applicazione con riferimento alle fattispecie di rifiuto tacito per le quali, alla data del 1° aprile 2012, non siano decorsi novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza di rimborso.

Per converso, il nuovo istituto non si applica alle controversie riguardanti i rifiuti taciti per i quali, alla data del 31 marzo 2012, sia già decorso il termine di novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza.

Il reclamo – e questo è forse l’aspetto più importante – deve essere identico al ricorso (ecco perché forse sarebbe più corretto chiamarlo prericorso) perché, se non viene accolto, si trasforma automaticamente in ricorso.

Non si tratta quindi di un ricorso gerarchico (o in autotuela), ma di qualcosa di ben diverso e di ben più complicato.

Infatti, se il reclamo non viene accolto, il contribuente deve presentare, come visto, un ricorso identico al reclamo e, se il ricorso non è identico, viene respinto per inammissibilità.

Come noto, se il ricorso viene respinto, l’atto impugnato viene confermato.

Il legislatore ha avuto cura di precisare che la inammissibilità deve e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

Il contribuente che debba proporre un reclamo, quindi, deve stare ben attento a non lasciarsi trarre in inganno dal nome: in realtà sta proponendo un ricorso e deve quindi valutare se è in grado o no di farlo (e, in questo secondo caso, se affidarsi ad un professionista).

La procedura per il reclamo (a ulteriore conferma che si tratta, di fatto, di un prericorso) è la stessa prevista per il ricorso tributario.

Si applicano, infatti, prescrive il legislatore, gli artt. 12, 18, 19, 20, 21, 22 comma 4° del Dlt 546/92, quindi con tutte le formalità prescritte dalla legge tranne il versamento del contributo unificato.

L’aspetto più importante è che, a pena di inammissibilità, il reclamo deve essere proposto entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto da reclamare (a meno che non sia previsto un diverso termine da eventuali leggi speciali). Ricordiamo, ancora una volta, che l’inammissibilità del reclamo è causa di inammissibilità del ricorso.

Si pone il problema della sospensione feriale dei termini. Ad avviso dell’Agenzia delle Entrate, la sospensione si applica.

Praticamente, ciò vuol dire che qualora il termine di novanta giorni previsto dal comma 9 dell’articolo 17-bis del DLT 546/1992 venga a cadere nel periodo tra il 1° agosto e il 15 settembre, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio decorre a partire dal 16 settembre.

Operativamente, va rilevato che il contribuente deve depositare copia di tutti i documenti che, in caso di esito negativo del procedimento, il contribuente intenderebbe allegare al ricorso e depositare presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale.

Dal punto di vista pratico possono sorgere non poche difficoltà, visto che a volte i documenti sono numerosi e quindi, in questi casi, è consigliabile notificare il reclamo mediante la procedura di notifica a mani.

Se la procedura di reclamo non si conclude entro novanta giorni, il reclamo produce gli effetti del ricorso.

Questo significa, in pratica, che, in caso di rigetto del reclamo, entro 120 giorni dalla notifica dello stesso, il contribuente deve depositare l’atto e i documenti in commissione tributaria.

Il reclamo non sospende l’atto impugnato e, in particolare, non ne sospende l’efficacia esecutiva. La questione non è di poco conto solo che si consideri che tra gli atti soggetti a reclamo c’è l’avviso di accertamento.

Tuttavia – e dato che a tutti gli effetti il reclamo è un prericorso – il contribuente può, per interpretazione condivisa anche dalla Agenzia delle Entrate nella ormai pluricitata circolare, chiedere la sospensione dell’atto.

La norma in esame, inoltre, prevede che il contribuente possa proporre una mediazione volta a definire in modo non contenzioso la vertenza.

Si tratta di una facoltà e non di un obbligo e lo scopo della previsione è palesemente tentare di deflazionare il contenzioso.

Ad avviso dello scrivente si tratta di una pia illusione posto che si pone il problema, praticamente rilevantissimo, della responsabilità erariale del funzionario che, accordando la mediazione, rinunci ad una parte delle pretese.

Statisticamente, del resto, la conciliazione giudiziale prevista dall’art. 48 del Dlt. 546/92 (istituto analogo a quello in esame) si è rivelata negli anni un flop (diverso discorso deve farsi per l’accertamento con adesione, invece).

Ulteriore ragione perché il contribuente non proponga, nel reclamo, una mediazione tributaria, sta nell’ultimo comma della norma in esame (cioè l’art. 17 bis DLT 546 /92).

Tale comma così dispone: “Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo. Nelle medesime controversie, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria, può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”.

Quindi, il contribuente che proponga una mediazione e se la veda respinta sarà condannato a pagare il 50% delle spese del procedimento di mediazione che lui stesso ha proposto (!).

L’art. 17 bis in discorso prevede, per il vero, che anche l’Ufficio possa formulare una proposta di mediazione.

Questa possibilità sarebbe senza dubbio da tenere in considerazione, ma, atteso che una proposta di questo genere, da parte dell’Ufficio, implica il riconoscimento di criticità nell’atto che l’Ufficio stesso ha emesso (il che sarebbe come dire non che l’agenzia delle entrate ha sbagliato, ma quasi…) e quindi, ancora una volta, possibili responsabilità erariali da parte del funzionario che ha emesso l’atto “mediato”, si reputa che, ancora una volta, il tentativo di mediazione rimarrà confinato nel Regno delle Idee.

Preavviso di fermo: nuovi profili di tutela in una recente pronuncia delle SSUU

 La Cassazione, a sezioni unite, si pronuncia ancora una volta sul controverso istituto del preavviso di fermo, modificando, in parte, l’orientamento delle sezioni semplici.

Con la recente Sentenza n° 11087/2010 depositata il 7/5/2010 affronta due questioni: la giurisdizione e la impugnabilità del preavviso.

Quanto alla giurisdizione, la risposta è solo parziale.

Il quesito riguarda chi debba decidere in ordine alle questioni attinenti a preavvisi di fermo per debiti tributari e chi debba decidere, invece, a preavvisi di fermo per debiti non tributari.

La Cassazione, trincerandosi dietro la inammissibilità del quesito si limita ad osservare che “al giudice tributario appartiene la cognizione delle obbligazioni di natura fiscale, mentre il giudice ordinario giudica delle altre materie” e dunque, a suo tempo, bene fece il Giudice a quo a tenere distinte le due specie di obbligazioni.

Quanto alla impugnabilità del preavviso, invece, la Cassazione dice di più e, soprattutto, dice cose più interessanti.

La domanda è se il preavviso di fermo – che è atto diverso dal fermo vero e proprio in quanto si limita a preannunciarlo – sia impugnabile o no (ovviamente Equitalia, ricorrendo in Cassazione, sosteneva di no, peraltro sulla scorte di altri precedenti di legittimità e di merito).

La Cassazione ha innanzi tutto osservato che sul preavviso di fermo sottoposto alla sua attenzione (ma, per quanto è dato sapere, quasi tutti i preavvisi sono così) è scritto che, decorsi venti giorni dalla notifica senza che sia stato eseguito il pagamento “senza ulteriore preavviso” si provvederà al fermo.

Partendo da questo dato testuale la Cassazione letteralmente afferma che “l’atto impugnato vale come comunicazione ultima della iscrizione del fermo entro i successivi venti giorni. Di qui l’interesse ad impugnare“.

Con ciò il Collegio ha respinto la tesi di Equitalia secondo la quale il preavviso equivale, in pratica, ad una semplice raccomandata di messa in mora e, dunque, non c’è un interesse giuridicamente tutelabile.

Da apprezzare anche il fatto che le SSUU si dilunghino anche nel ragionamento a contrario osservando che a seguire la tesi opposta il contribuente dovrebbe attendere il decorso dei venti giorni per impugnare direttamente l’iscrizione del fermo, direttamente in sede di esecuzione. Ciò, osservano le SSUU è un aggravio di spese e perdita di tempo assolutamente priva di senso.

Polemicamente, ci si potrebbe domandare che senso avevano, allora, le Sentenze delle Commissioni Tributarie e dei Giudici ordinari che negavano che si potesse impugnare il semplice preavviso…

Con onestà intellettuale e precisione di giudizio le SSU danno atto che non ignora il collegio che taluni arresti, anche recenti (Cass. 20301/08 Cass 8890/09 – di cui peraltro si trova menzione anche su questo sito) hanno escluso la impugnabilità del provvedimento per carenza di interesse ma tale indirizzo deve ritenersi superato… a nulla rilevando che detto preavviso non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 Dlt. 549/62 in quanto tale elencazione va interpretata in senso estensivo .. per ragioni di tutela del contribuente.

Le SSUU precisano altresì che “analoghe considerazioni valgono allorquando il preavviso di fermo riguardi obbligazioni extratributarie.

Ricapitolando, le SSUU, cambiando orientamento rispetto al passato, affermano che il preavviso di fermo è impugnabile.

Davanti a chi rimane ancora questione aperta e di cui, verosimilmente, si sentirà ancora parlare.  

No all’iscrizione ipotecaria esattoriale per importi inferiori ad 8.000 euro.

Tutti sappiamo che, per cautelare la riscossione dei crediti da parte di Equitalia, il concessionario della riscossione, dopo la notifica della cartella ed il mancato pagamento, era solito iscrivere ipoteca sui beni del debitore (o presunto tale), a volte senza neanche avvisarlo.

Una doglianza ed frequente motivo di ricorso era rappresentato dalla sproporzione tra il credito riscosso ed il rimedio cautelare adottato.

Il debitore / contribuente si lamentava cioè del fatto che, per proteggere un credito magari irrisorio, Equitalia aveva iscritto ipoteca su un immobile di valore ben superiore, con tutte le conseguenze negative che ciò comporta.

Da ciò, sosteneva qualcuno, discende la illegittimità dell’iscrizione ipotecaria.

Sul punto c’era difformità di pronunce: alcuni sostenevano che l’iscrizione ipotecaria era legittima a prescindere dall’entità del debito cautelato, altri affermavano che, sotto una certa soglia, lo strumento dell’iscrizione ipotecaria era eccessivo.

La questione è finita alle Sezioni Unite della Cassazione che, tra l’altro, hanno il compito proprio di dirimere i contrasti giurisprudenziali. La loro decisione è dunque di notevole importanza poiché, almeno fino ad una nuova pronuncia contraria delle stesse Sezioni Unite (caso possibile, in teoria, ma rarissimo), quanto le SSUU affermano vincola, di fatto, tutti gli altri giudici.

Con la Sentenza 4077 del 22 febbraio 2019 le SSUU hanno così statuito: “rappresentando un atto preordinato e strumentale all’espropriazione immobiliare, anche l’ipoteca esattoriale soggiace al limite per essa stabilito, nel senso che non può essere iscritta se il debito del contribuente non supera gli 8.000,00 euro“.

Prima di esaminare brevemente la decisione, è opportuno ricordare che il concessionario della riscossione iscrive ipoteca sempre per un importo pari al doppio dell’entrata pretesa, dunque, se il debito è di 8.000,00 euro, l’iscrizione ipotecaria è di 16.000, se il debito è di 4.000,00 euro, l’iscrizione ipotecaria è di 8.000. Dall’esame della Sentenza appare abbastanza chiaro che essa si applica se il debito non l’iscrizione è inferiore ad 8.000,00 euro.

Puntualizzato quanto sopra, è perfino superfluo rilevare come la pronuncia in commento abbia sollevato aspre critiche da parte dei concessionari della riscossione che ne hanno lamentato, soprattutto, la laconicità.

Invero, visto la portata applicativa del principio giurisprudenziale in commento, forse il Massimo Consesso poteva scrivere di più, ma, anche così, è possibile ricostruire il ragionamento delle Sezioni Unite.

Si parte dal concetto – ormai non più contestabile – che l’iscrizione ipotecaria sia uno strumento funzionale e preordinato all’esecuzione. Numerose sono le pronunce anche della Cassazione che depongono in tal senso.

Insomma: l’iscrizione ipotecaria serve a “bloccare” il bene (esattamente come le c.d. ganasce fiscali alias fermo amministrativo) onde impedire che il debitore se ne spogli, sottraendolo all’azione esecutiva del creditore ed onde attribuire al creditore il c.d. “diritto di sequela”, il quale consente di pignorare l’immobile ipotecato agendo esecutivamente non solo contro il debitore, ma anche cntro colui al quale il debitore stesso abbia venduto il bene.

Con un elevato grado di probabilità il ragionamento seguito dalla Suprema Corte (che forse davvero meglio avrebbe fatto ad esplicitarlo) è stato il seguente: siccome l’iscrizione serve in vista del futuro pignoramento, se non è possibile pignorare allora non è possibile ipotecare. Insomma: l’iscrizione, da sola, non ha senso alcuno. Deve essere possibile, in futuro, un pignoramento. Dato che, argomentando ex art. 76 e 77 DPR 602/73, non è possibile pignorare un bene immobile se il credito è inferiore ad 8.000,00 euro, allora non è possibile nemmeno ipotecarlo.

Tutto qui.

Poche parole, forse, magari anche troppo poche, ma, in fondo, abbastanza chiare.

Quali i mezzi di tutela? O, per meglio dire, come “sfruttare”, per così dire, questo principio?

Qui il problema è un po’ più complicato.

Sappiamo che, dopo la legge Visco – Bersani, l’iscrizione ipotecaria è (come il fermo amministrativo) un atto autonomamente impugnabile innanzi alle Commissioni Tributarie utilizzando il ricorso ex Dlt. 546/92 (è discutibile se sia possibile chiedere ex art. 47 la sospensione dell’atto impugnato, ma non vi è un esplicito divieto in tal senso).

Sappiamo però che successive e condivisibili interpretazioni giurisprudenziali anche di legittimità hanno precisato che è possibile ricorrere alle Commissioni Tributarie solo se la materia è di loro competenza (Cass. 6593 e 6594/2009). Semplificando: se si tratta di tributi. Dunque – e per tirare le fila – se Equitalia, per riscuotere un credito tributario d’importo inferiore ad 8000 euro, ha iscritto ipoteca, è possibile ricorrere in CTP entro i termini e con le modalità previste dal citato Dlt. 546/92 (si apre poi il problema della eventuale non comunicazione, da parte di Equitalia, dell’iscrizione, ma non è il caso di esaminare qui questo profilo).

E se Equitalia non ha agito per recuperare crediti tributari, ma altre entrate? Es. crediti INPS, sanzioni amministrative, entrate di diritto privato etc.?

Prima di rispondere è bene ricordare che quanto segue è la personale opinione dello scrivente.

In passato, si è visto ricorrere agli strumenti di cui all’art. 615 e ss. c.p.c., tuttavia, personalmente, dato che – come sopra visto – l’iscrizione ipotecaria non è un atto esecutivo, non mi appare corretto o, quantomeno, del tutto pertinente, un contenzioso con cui si contesta il diritto di controparte di procedere ad esecuzione forzata. Se si sostiene che un’iscrizione ipotecaria è illegittima, il petitum dell’iscrizione è la cancellazione, non – almeno a mio parere – accertare e dichiarare che controparte non ha il diritto di procedere ad esecuzione forzata immobiliare. Tale declaratoria, tutt’al più, è il presupposto logico / giuridico della cancellazione. Ritengo quindi possibile anche un’azione ex art. 2884 c.c.

Va da sé che, trattandosi di materia in continua evoluzione, tale personalissimo e sommesso parere ben può essere smentito dallo sviluppo della giurisprudenza – che si terrà comunque sotto costante controllo.

NOTA La sentenza in commento è gratuitamente scaricabile in formato PDF dal Sito della Cassazione.

Anche la Commissione Tributaria Regionale si pronuncia sul bollo auto.

 Con Sentenza del 4/7/2008 n° 35/26/2008 – ormai passata in giudicato – la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia si pronuncia sugli avvisi di accertamento per il bollo auto.

Con la pronuncia in commento, confermando quanto già affermato dalla Commissione Tributaria Provinciale, la CTR ha applicato lo Statuto del contribuente e censurato la lacunosità dell’avviso di accertamento che, nel caso di specie, non precisava se il versamento era stato “omesso” del tutto oppure “versato in ritardo” e richiamava una tabella che però non allegava.

Per tali motivi la Commissione Tributaria Regionale ha annullato l’avviso di accertamento condannando la Regione al pagamento delle spese di lite.

A scanso di equivoci è bene precisare che la Sentenza in commento riguarda un avviso di accertamento e non una cartella di pagamento che è un atto diverso, notificato da Equitalia e che deve rispondere ad altri requisiti formali e sostanziali.

È anche bene precisare che, anche se redatti in serie, non è detto che tutti gli avvisi di accertamento siano affetti dai vizi che hanno travolto quello impugnato. Bisogna quindi valutare caso per caso, esaminandoli, se gli avvisi sono viziati oppure no.

Per promemoria, infine, è bene ricordare che sia gli avvisi di accertamento sia le cartelle esattoriali vanno impugnati entro sessanta giorni dalla loro ricezione. Se si lasciano decorrere inutilmente detti sessanta giorni, difficilmente la situazione è reversibile.

La Cassazione si pronuncia sul riparto di giurisdizione in materia di rifiuti.

 Si ricorderà che qualche tempo fa la Corte Costituzionale si era pronunciata sulla natura non tributaria della tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

Quale conseguenza di tale pronuncia ora la Cassazione s’interroga sulla giurisdizione in materia.

Più precisamente, la Cass. si domanda ora se, in questa materia, debba continuare ad esistere la giurisdizione tributaria.

Osserva la Cassazione che   A favore della natura non tributaria è poi l’assenza, all’interno della disciplina della Tia, di norme riguardanti l’accertamento, le sanzioni e il contenzioso. Ulteriori elementi importanti sono costituiti dal fatto che la Tia è soggetta ad Iva ed è riscossa tramite fatture, non qualificabili come atti impositivi. Tutti questi elementi, che portano a escludere la natura tributaria della Tia, vanno considerati nel quadro normativo più generale nel quale si colloca il passaggio dalla Tarsu alla Tia e alla Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani, caratterizzato da una scelta legislativa per la privatizzazione che giustifica il passaggio dalla tassa alla tariffa con connotazioni di corrispettività.

Dunque, si domanda la Cassazione, se non si tratta di tributi, è giusto che decida in proposito la Commissione Tributaria?

Questa la risposta “Deve ordinarsi la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Cancelleria della Corte Costituzionale per l’esame della questione, rilevante e non manifestamente infondata, di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, D.L. 30 settembre 2005, n. 203 – convertito con modificazioni nella legge 2 dicembre 2005, n. 248 – nella parte in cui sono devolute alla cognizione della giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone (tariffa) lo smaltimento dei rifiuti urbani” (Cass. civ. (Ord.), Sez. Unite, 15/06/2009, n. 13894)

E quindi non resta che attendere la decisione in proposito della consulta.

Nelle more, e cioè in attesa che il Giudice delle leggi si pronunci, si ritiene che in materia continui a sussistere la giurisdizione tributaria.

La ragione è semplice: se si potesse affermare, in proposito, la giurisdizione ordinaria, l’ordinanza della Cassazione – che sostiene la giurisdizione tributaria in materia, ma ne mette in dubbio la legittimità – non avrebbe ragione di esistere.

È bene avvertire che questa questione non ha un’influenza diretta sulla questione relativa alla giurisdizione sulle controversie dirette ad ottenere il recupero dell’Iva indebitamente caricata sulle somme chieste a titolo di smaltimento rifiuti.

Fermo e preavviso di fermo, un pericoloso distinguo della Cassazione.

 Sappiamo che cos’è il fermo amministrativo e sappiamo anche che è un atto impugnabile, sia pure con le note difficoltà che sono state da più parti illustrate.

Bisogna però distinguere il fermo dal preavviso di fermo.

Il preavviso di fermo è una comunicazione con la quale si avverte il contribuente (in senso lato) che, se non paga entro X giorni l’importo richiesto, l’ente riscossore eseguirà il fermo.

Insomma il preavviso (appunto) avvisa, il fermo blocca.

In concreto, tale distinzione non è sempre agevole e non è mai possibile dire se si tratti di preavviso di fermo – o di fermo – senza leggere la comunicazione.

Si diceva che il fermo è impugnabile, ma il preavviso? Lo è?

Con la Sentenza 8890/2009 la Cassazione, seconda sezione, ha aderito alla tesi negativa.

Essa afferma: la comunicazione preventiva di fermo amministrativo (c.d. preavviso) di un veicolo, notificata a cura del concessionario esattore, non arrecando alcuna menomazione al patrimonio – poiché il presunto debitore, fino a quando il fermo non sia stato iscritto nei pubblici registri, può pienamente utilizzare il bene e disporne (dunque venderlo, guidare etc.) è atto non previsto dalla sequenza procedimentale dell’esecuzione esattoriale e, pertanto, non può essere autonomamente  impugnabile ex art. 23 l. 689/81 (la legge che disciplina l’impugnazione delle sanzioni amministrative) non essendo il destinatario titolare di alcun interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c. (Cass. 20301/2008). L’azione di accertamento negativo del credito dell’amministrazione, da parte sua, non può essere astrattamente proposta in ogni tempo per sottrarsi alla preannunciata esecuzione della cartella esattoriale, impugnabile, eventualmente in via recuperatoria con le forme i tempi ed il rito specificamente dipendenti dalla sua origine e dal tipo di vizi fatti valere (la Cassazione sta dicendo che si deve impugnare la cartella , la quale arriva – o dovrebbe arrivare sempre – prima del fermo).

Quindi, non solo non si può impugnare il preavviso di fermo come se fosse una multa (es. ricorso al Giudice di Pace) … e fin qui, niente di strano, ma, addirittura, secondo la cassazione non esiste neanche un interesse processualmente tutelabile ad impugnarlo.

Da questa tesi si potrebbe dedurre, addirittura, che il preavviso di fermo non è impugnabile mai, neppure utilizzando il ricorso ex art. 700 c.p.c. , tesi già sostenuta per es. da Trib. (Ord.) Bologna, 27/06/2007 e respinta, invece, da T Roma Ord. 8/8/06.

Tuttavia tale tesi potrebbe creare un vuoto di tutela.

Infatti spesso il contribuente viene preavvisato che si eseguirà il fermo se non si paga, ma non viene avvisato quando il fermo viene effettivamente eseguito.

L’obbligo di avvisare – ed è curioso per un atto impugnabile – non è infatti imposto da una legge, ma solo da una circolare.

Prima dell’intervento della Cassazione con la Sentenza in commento si ovviava, a volte, nella prassi impugnando il preavviso “come se” fosse non semplice preavviso, ma una vera e propria comunicazione di fermo.

Ora non sarà più possibile o, quantomeno, sarà rischioso.

Bisognerà attendere il fermo vero e proprio, con inevitabili problemi applicativi, difficoltà di individuare il momento a partire dal quale decorre il termine per impugnare etc. etc.

          

L’Iva, la TARSU, la TIA e la richiesta di rimborso

 Ciclicamente dal 2007 appaiono su internet ed anche altrove articoli del seguente tenore: con una recente Sentenza la Cassazione ha dichiarato illegittima l’applicazione dell’Iva sulla Tarsu; potete chiedere quindi indietro dieci anni di Tarsu se fate così e cosà. Il “così e cosà” comporta di solito l’iscrizione a qualche associazione – onlus – patronato e, inevitabilmente, il pagamento di una quota associativa.

Anche se ridere fa buon sangue, però, sulle tasse è difficile scherzare. Soprattutto è pericoloso fidarsi del passaparola e del “si dice”.

Il consiglio è risalire alla fonte. Si cita una “recente sentenza della cassazione”; quale? Si fa cenno a “migliaia di ricorsi” pendenti. Con quale esito?

Il fatto è che la questione è purtroppo più complicata di quanto possa apparire da certe trionfalistiche (e, a volte, imprecise quando non approssimativamente scopiazzate)  affermazioni.

Andiamo con ordine. Avverto subito che questa è una semplificazione, dato che ci sono stati numerosi interventi legislativi in materia, ma, ai fini illustrativi del presente articolo, reputo sia una semplificazione accettabile.

Bisogna innanzi tutto distinguere “tassa” e “tariffa” .

La tassa, sappiamo più o meno tutti cos’è: un tributo, una prestazione patrimoniale imposta a prescindere da altri fattori, che trova la sua fonte nella legge e legata alla capacità contributiva.

La tariffa può essere definita come un prezzo, determinato da qualche autorità pubblica (es: comune CIPE), di servizio reso. Un corrispettivo, insomma. È tariffa, per esempio, la tariffa del servizio idrico integrato. È tariffa la TOSAP (a differenza della COSAP)

La TARSU è nata, almeno come concetto, nel 1941 – legge 366 ed è stata modificata e resa obbligatoria dal Dlgs 786/1981.

Il decreto legislativo 507/93 ha imposto ai comuni di adottare una tassa annuale, usualmente denominata Tarsu, da applicarsi su base tariffaria, cioè secondo regolamenti comunali.

Il Decreto Ronchi -decreto legislativo n ° 22/1997 – ha previsto che i comuni istituissero una tariffa per la copertura integrale dei costi per lo smaltimento dei rifiuti, sicchè può dirsi che dal 1997 la Tarsu è (o avrebbe dovuto essere) sostituita dalla TIA (Tariffa Integrata Ambientale). Lo stesso decreto, con complesso regime transitorio, prevede l’abolizione della TARSU. Di rinvio in rinvio il legislatore ha concesso termine ai comuni fino al 2008 per sostituire gradualmente la Tarsu con la Tia.

Nel 2006, tuttavia, il legislatore, con il Decreto 152/2006 ha introdotto la Tariffa per la Gestione dei Rifiuti Urbani che costituisce un corrispettivo che ha soppresso la TIA.

Da tutta questa complessa successione di norme deriva che ci sono comuni in cui esiste la TARSU, altri in cui esiste la TIA e che, secondo tempi di attuazione non prevedibili, tutt’e due le entrate verranno sostituite dalla Tariffa per la Gestione dei Rifiuti Urbani.

Ma torniamo alla Tarsu /TIA e sveliamo l’assassino: l’assoggettamento di TIA e TARSU ad IVA è legittimo od illegittimo?.

La “Sentenza recente” della Cassazione cui accennavo all’inizio, di solito, non viene citata. Peraltro una puntigliosa ricerca e dei siti istituzionali e dei siti non istituzionali induce ad affermare che la Sentenza in questione è la 17526/2007.

In tale pronuncia la parola IVA non compare nemmeno una volta in tutto il testo. Non compare neppure il DPR 633/1972 – cioè la legge sull’Iva.

La Sentenza però dice un’altra cosa: interessante, utile, positiva, ma un’altra cosa: anche se la TIA è una tariffa, continua ad essere, in pratica, un tributo.

Va precisato che la Cassazione è intervenuta sul tema, magari incidentalmente, con le pronunce 13902/1997,  4895/2006, 5298 e 5297/2009, sostanzialmente confermando sempre, sia pure con diverse sfumature, la natura tributaria della prestazione.

Da questa tesi, qualche interprete (la genericità è d’obbligo perché di solito gli articoli non sono firmati) deduce che l’Iva – in quanto “tassa su tassa” – è illegittima.

Sul punto è intervenuta, or ora – e cioè con la Sentenza 238/2009 del 24/7/2009 – la Corte Costituzionale in persona. Il testo della Sentenza è disponibile gratuitamente sul sito della Corte stessa.

Sono dieci pagine di Sentenza – scritte in piccolo – ma quel che conta ai fini che interessano è riportato al punto 7.2.3.6.

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Fermo amministrativo: il fisco si può cautelare una volta sola

 Si sa (almeno su questo le varie pronunce sono concordi) che il fermo amministrativo ha una funzione cautelare e prodromica all’esecuzione.

Serve cioè ad evitare che, nelle more tra la notifica della cartella esattoriale e l’inizio dell’esecuzione, il debitore si spogli dei propri beni alienandoli ad altri.

Può capitare che lo stesso contribuente, oltre che un debito verso il fisco, abbia anche un credito.

Questo è il caso deciso dalla Sentenza 15424/09; nel caso in questione il contribuente aveva un credito Iva risalente al 2005 – e quindi non prescritto.

Nondimeno, la pubblica amministrazione aveva sottoposto a ganasce fiscali l’autovettura del contribuente.

Quest’ultimo aveva impugnato il fermo.

La Corte di Cassazione ha dato ragione al contribuente, annullando il fermo.

I Giudici di legittimità hanno statuito che la legislazione in materia di rimborsi Iva (art. 38/bis DPR 633/72) prevede “un articolato sistema di garanzie teso a tutelare l’interesse dell’erario”.

Proprio perché è già garantito, il fisco non può garantirsi due volte e cioè ricorrendo sia alla legislazione speciale sia al fermo amministrativo.

La Cassazione ha quindi accolto il ricorso.

Sorgono tre domande:

•1)      se il principio vale tutte le volte che vi è “un articolato sistema di garanzie teso a tutelare l’interesse dell’erario”

•2)      se il principio vale anche quando il credito del contribuente verso il fisco non è un credito Iva, ma anche di altra natura e, in questo caso, che caratteristiche deve avere il credito che si intende opporre all’azione cautelare del fisco

•3)      se il principio vale anche in caso di iscrizione ipotecaria

Per ora, si può già affermare che la Sentenza è interessante e favorevole.

Può essere utile aggiornare l’articolo precisando che anche il Consiglio di Stato (sente, 517/2010 che ha deciso un ricorso del 2006) si è espresso in proposito sostenendo che sui beni del fallito non è possibile eseguire il fermo amministrativo.

Questi i motivi della decisione: “l’adozione di un provvedimento di fermo  amministrativo in pendenza della procedura fallimentare è preclusa dall’art. 168 r. d. 16 marzo 1942 n. 267, che vieta l’inizio o la prosecuzione di azioni esecutive sul patrimonio del debitore, alle quali è equiparabile il fermo amministrativo (Cons. St. , sez. VI, 7 dicembre 2001, n. 6179). La giurisprudenza di legittimità ha infatti interpretato tale norma (art. 168) nel senso che il divieto di azione esecutiva include anche l’emissione del fermo amministrativo da parte della pubblica Amministrazione nei riguardi dei crediti che il fallito vanti nei confronti della stessa, e che l’eventuale compensazione con crediti pretesi dalla pubblica Amministrazione verso il fallito debba farsi applicando esclusivamente l’art. 56 l. fall. (Cass. 3 settembre 1996 n. 8053).” – CDS 517/2010