L’Avv. Simone LAZZARINI convocato per la riunione del 29 luglio 2009, ore 13:00, presso il Ministero della Salute

Informo che il sottoscritto ha ricevuto convocazione ufficiale per la riunione che, come preannunciato, si terrà il giorno 29 luglio, 2009, alle ore 13:00 presso l’Auditorium del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali – settore salute, sede di via Lungotevere Ripa, 1.
L’oggetto della convocazione è la “definizione dei criteri e del percorso ttuativo per la stipula di transazioni in materia di danni da sangue ed emoderivati infetti – art.2 comma 361 della Legge 24/12/2007“.
Mi riservo di pubblicare un rendiconto di quanto accadrà nel minor tempo possibile.
Buona serata a tutti

Avv. Simone LAZZARINI

La ritardata conclusione del procedimento amministrativo ex lege 210/1992 è fonte di risarcimento del danno (anche) patrimoniale

Ecco un altro significativo colpo al discutibile modus operandi dell’Amministrazione nella mala gestio delle pratiche d’indennizzo.
Infatti, dopo le numerose sentenze con le quali, sin dal 2002 (leading case: sentenza del Tribunale di Milano, Sezione lavoro, n. 3358/2002), il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano hanno reiteratamente affermato che il ritardo nel completamento del procedimento finalizzato all’erogazione dei benefici di cui alla legge 210/1992 attribuisce il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale (da ultimo apprendiamo che anche il TAR Lazio si è uniformato a tale consolidato orientamento giurisprudenziale riprendendo letteralmente il dictum delle sentenze nn.1237/2008 e 74/2009 pubblicate in altra parte del sito), la stessa Corte d’Appello di Milano, Sezione Lavoro, ha affermato che i danneggiati vanno risarciti anche del danno patrimoniale subito nelle more dello svolgimento della procedura, sub specie di spese per assistenza legale e di costi sostenuti per recarsi personalmente a Roma per esaminare l’andamento della pratica.
Così testualmente recita la sentenza n.591/2009, depositata in cancelleria lo scorso 16 luglio:
“Va accolto in parte anche l’appello incidentale, dovendosi in proposito porre in evidenza, con il primo giudice, la clamorosa violazione da parte del Ministero, che ha corrisposto l’indennizzo a distanza di oltre cinque anni e solo a seguito di provvedimento monitorio, del termine di settecentotrenta giorni previsto per la conclusione del procedimento amministrativo dal d.m. n. 514 del 1998. L’inadempimento dell’obbligo legale da pare del Ministero, alla base della domanda risarcitoria, quindi sussiste.
Esso è stato altresì fonte di danno patrimoniale.

Per un verso, infatti, il riferimento alla vicenda inerente l’indennizzo in questione delle prestazioni legali rese all’attrice emerge dalla nota pro forma prodotta ( ibid., doc. 24), la quale, si badi bene, è stata emessa in una data (20 dicembre 1999) in linea con la vicenda stessa, ed il cui importo appare congruo rispetto alla medesima.
Per un altro verso, la prova testimoniale ha dimostrato che …… si sia recata nel maggio del 2000 a Roma, presso il Ministero della Salute, proprio per chiedere notizie della sua pratica d’indennizzo; notizie che non era riuscita ad ottenere nonostante numerose telefonate.
Le spese d’albergo vanno però contenute in quelle di un solo pernottamento, e quelle di vitto in quelle di un solo pasto ………….
…….condanna il Ministero a pagare all’attrice Euro 2.808,85, oltre gli interessi dalla notificazione del ricorso di primo grado.”

Decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni da trasfusioni di sangue infetto: per fortuna non tutti la pensano come le Sezioni Unite

Sul numero n.6 della rivista Danno e responsabilità di Ipsoa, che ringraziamo per l’autorizzazione concessaci, compare l’articolo “Debito di sangue”: danno da emotrasfusione e prescrizione.
Nella parte più interessante, quella relativa al commento della nota sentenza delle Sezioni Unite, n.581/2008, redatto a cura della Dr.ssa Sara Oliari, leggiamo testualmente quanto segue a proposito dell’abbandono, sancito dalle SS.UU., dell’orientamento giurisprudenziale più garantista che faceva decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno biologico dalla data di notifica dei giudizi delle CMO ex lege 210/1992: Continua a leggere

Fermo amministrativo: il fisco si può cautelare una volta sola

 Si sa (almeno su questo le varie pronunce sono concordi) che il fermo amministrativo ha una funzione cautelare e prodromica all’esecuzione.

Serve cioè ad evitare che, nelle more tra la notifica della cartella esattoriale e l’inizio dell’esecuzione, il debitore si spogli dei propri beni alienandoli ad altri.

Può capitare che lo stesso contribuente, oltre che un debito verso il fisco, abbia anche un credito.

Questo è il caso deciso dalla Sentenza 15424/09; nel caso in questione il contribuente aveva un credito Iva risalente al 2005 – e quindi non prescritto.

Nondimeno, la pubblica amministrazione aveva sottoposto a ganasce fiscali l’autovettura del contribuente.

Quest’ultimo aveva impugnato il fermo.

La Corte di Cassazione ha dato ragione al contribuente, annullando il fermo.

I Giudici di legittimità hanno statuito che la legislazione in materia di rimborsi Iva (art. 38/bis DPR 633/72) prevede “un articolato sistema di garanzie teso a tutelare l’interesse dell’erario”.

Proprio perché è già garantito, il fisco non può garantirsi due volte e cioè ricorrendo sia alla legislazione speciale sia al fermo amministrativo.

La Cassazione ha quindi accolto il ricorso.

Sorgono tre domande:

•1)      se il principio vale tutte le volte che vi è “un articolato sistema di garanzie teso a tutelare l’interesse dell’erario”

•2)      se il principio vale anche quando il credito del contribuente verso il fisco non è un credito Iva, ma anche di altra natura e, in questo caso, che caratteristiche deve avere il credito che si intende opporre all’azione cautelare del fisco

•3)      se il principio vale anche in caso di iscrizione ipotecaria

Per ora, si può già affermare che la Sentenza è interessante e favorevole.

Può essere utile aggiornare l’articolo precisando che anche il Consiglio di Stato (sente, 517/2010 che ha deciso un ricorso del 2006) si è espresso in proposito sostenendo che sui beni del fallito non è possibile eseguire il fermo amministrativo.

Questi i motivi della decisione: “l’adozione di un provvedimento di fermo  amministrativo in pendenza della procedura fallimentare è preclusa dall’art. 168 r. d. 16 marzo 1942 n. 267, che vieta l’inizio o la prosecuzione di azioni esecutive sul patrimonio del debitore, alle quali è equiparabile il fermo amministrativo (Cons. St. , sez. VI, 7 dicembre 2001, n. 6179). La giurisprudenza di legittimità ha infatti interpretato tale norma (art. 168) nel senso che il divieto di azione esecutiva include anche l’emissione del fermo amministrativo da parte della pubblica Amministrazione nei riguardi dei crediti che il fallito vanti nei confronti della stessa, e che l’eventuale compensazione con crediti pretesi dalla pubblica Amministrazione verso il fallito debba farsi applicando esclusivamente l’art. 56 l. fall. (Cass. 3 settembre 1996 n. 8053).” – CDS 517/2010

Cartella esattoriale “omertosa?” … ma sì(?!)

 Tizio riceve ingiunzioni di pagamento (si suppone siano vecchie ingiunzioni ex RD 639/1910 – lo svolgimento del processo non lo precisa) e cartelle esattoriali per TARSU relativa agli anni 1999 e 2000.

Gli atti non indicano le modalità con cui proporre ricorso né il termine entro il quale ricorrere sicché Tizio non propone ricorso in tempo.

La Commissione Tributaria respinge il ricorso ritenendolo tardivo (il che vuol dire: ti respingo la domanda senza neppure leggerla perché l’hai proposta oltre il termine) e la vicenda finisce in Cassazione.

Con Sentenza 15143/2009 la Cassazione afferma:

•-         visto che la legge (Art. 5 l. 212/2000) non prevede espressamente la nullità dell’atto tributario per il solo fatto che le richieste indicazioni non sono presenti

•-         visto che l’errore non è “scusabile” e, in ogni caso, il contribuente non ha dimostrato che era scusabile

si respinge il ricorso.

Ci si domanda come dimostrare la “scusabilità” di un errore visto che si tratta di un’opinione e non di un fatto… a meno che non si cada nell’arbitrio più sfrenato.

Ci si domanda dal punto di vista di chi si debba valutare la scusabilità dell’errore – la Sentenza fa il paio con la Sentenza 14987/2009 già commentata su questo sito.

Ci si domanda che cosa accada in caso di cartelle che ingiungono contemporaneamente il pagamento di più entrate le opposizioni alle quali sono di competenza di organi diversi (Giudice di Pace, Tribunale, Commissione Tributaria, TAR… le giurisdizioni  non mancano).

Ci si domanda come sia necessario – per obbligo costituzionale, tanto che il legislatore è dovuto intervenire con l’apposita (ed ennesima) norma “salva cartelle” – indicare in cartella il responsabile del procedimento di riscossione, ma non sia necessario (??) indicare termini e modalità del ricorso.

Ci si domanda: ma se io domando al responsabile del procedimento di riscossione davanti a chi ricorrere e come ed entro quando, il responsabile … risponderà?

A modesto parere dello scrivente siamo di fronte ad una Sentenza “costituzionalmente disorientata”, ma, per ora, sembra che il contribuente se la debba tenere e, nel silenzio dell’atto da impugnare, rivolgersi a qualche oracolo che gli dia la risposta giusta nel rispetto dei termini di opposizione.

Sanzioni Tributarie … l’ignoranza scusa?

Cominciamo dalla legge e, in particolare, dall’art. 10 del Dlt 212/2000 (soprattutto il terzo comma) che così dispone:

 “1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.

 2. Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa.

3. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’àmbito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto(“.

Sembrerebbe, quindi, che, a differenza di quanto avviene di solito, in materia tributaria l’ignoranza scusi.

Come si sa, però, le leggi devono essere interpretate ed applicate. Nnon esistono leggi “chiare” e, soprattutto, non esistono leggi chiare in rapporto ad ogni specifico caso che si può verificare nella vita reale, ma questo è un discorso più epistemologico che giuridico.

Quindi: che cosa vuol dire, in concreto, “obiettive condizioni di incertezza?”.

La Cassazione, sull’onda lungo di un orientamento pro fisco su cui i giudici sembrano fare surf negli ultimi tempi precisa, (Sentenza 14897/2009) “l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente“.

Fin qui, niente di (troppo) strano. L’incertezza è un esimente e chi la invoca la deve provare. Deve provare cioè che le norme censurate sono contraddittorie, scoordinate, equivoche, mal scritte ecc. ecc. In realtà è più difficile quanto sembri: non perché manchino norme confuse, scoordinate, equivoche, mal scritte ecc. ecc. (anzi, ce ne sono in abbondanza), ma perché la “incertezza” non è un fatto, ma un’opinione. Ciò che appare incerto a me (per es. me contribuente), può apparire certo ad un altro (per es. il fisco) e un terzo (per es. il giudice) può avere, in proposito, un’altra opinione ancora. Premesso che “l’obbiettiva incertezza” è una chimera, almeno se la si intende nel senso più rigoroso, la domanda è dal punto di vista di chi ci si deve porre quando ci si domanda se l’applicazione di una norma nel caso concreto è obbiettivamente incerta?

Nel campo delle sanzioni penali si parla, da sempre, di “conoscenza parallela nella sfera laica” e ci si pone dal punto di vista della persona “media”. In altre parole (e per fare un esempio di scuola) nessuno si difenderà mai da un’accusa di omicidio sostenendo di ignorare che l’omicidio è un reato.

E in campo tributario?

Qui “l’onda lunga” di cui si parlava rischia di abbattersi soprattutto sul contribuente.

La Cassazione (v. anche Cass. 24670/2007) sostiene che ci si deve porre dal punto di vista non del generico contribuente, né dell’ufficio finanziario, né del professionista del settore. È il giudice “unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere – dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” a dover compiere tale giudizio. Si tratta, aggiunge la cassazione, non di un giudizio di fatto, ma di una questione di diritto. Non si tratta meno che mai di una questione di “equità” (la CTR aveva adottato proprio questo criterio, cassato dalla suprema corte).

Qui però, a sua volta, ci si deve chiedere: il giudice, nel valutare se un norma è certa ed incerta (e nessuno gli nega tale potere/dovere) dal punto di vista di chi si porrà, dal proprio (cioè dal punto di vista di un operatore del settore) oppure “farà finta” di essere un contribuente medio (nell’interesse del quale lo Statuto è dettato) ? – e (aggiungiamolo subito a scanso di equivoci non un “finto tonto”).

La Sentenza, in realtà, pare eludere il problema. È ovvio che è il giudice a dover interpretare la norma, ma secondo quali criteri? A parere dello scrivente, è palese che un giudice di commissione tributaria ha, nel valutare l’interpretazione di una norma, criteri e strumenti del tutto diversi dal quisque de populo. A lui parranno chiare norme che il cittadino medio reputa oscure.

A giudizio di chi scrive si corre il rischio di una decisione pro fisco non per parzialità del giudice, ma per caratteristiche intrinseche dello strumento d’interpretazione, il che appare essere un passo indietro rispetto ai principi dello statuto del contribuente.

Risponde per dolo eventuale chi consapevolmente trasmette il virus dell’HIV al partner

Pubblichiamo una recente interessante sentenza, relativa ad un caso seguito dallo studio, che curava gli interessi della persona offesa, costituitasi parte civile.
Il caso – drammatico – riguarda l’ipotesi di contagio HIV – poi evoluto in AIDS, subito da partner che, benchè gravemente malato, ha continuato ad intrattenere rapporti sessuali non protetti con la vittima, alla quale ha per anni taciuto la propria condizione.
Da notare come il Collegio Giudicante, nella quantificazione della pena, sia addirittura andato oltre le richieste del PM.
Opportuna poi la decisione di concedere alla vittima una provvisionale.
Pochi giorni dopo la lettura del dispositivo, lo stesso Tribunale, su richiesta della parte civile, ha disposto sequestro conservativo sui beni dell’imputato.

Sentenza Tribunale Busto Arsizio n.164-2009

Ordinanza di sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p.