L’ignoranza tributaria scusa?

Con la recente Sentenza Cass. 8825/2012 la Cassazione è tornata ad affrontare il problema dell’errore sulla norma tributaria e sulla portata esimente di tale errore.

Le norme principali in materia di errore tributario sono

L’art. 8 del DLT 546/92 per cui della “La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.

L’art. 6 DLT 472/997 per cui “Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento”.

L’art. 10 l. 212/2000 (statuto del contribuente) per cui “Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria . Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”.

È evidente che stiamo parlando di SOLE sanzioni – o di sanzioni ed interessi – mai del capitale ingiunto.

Detto questo, si può passare alla esegesi.

La Cassazione precisa che i principi di cui sopra non sono una applicazione, in campo tributario, del principio per cui l’ignoranza della legge – stavolta – scusa.

In effetti, chiarisce il Collegio, non si parla di “ignoranza” (meno che mai di ignoranza soggettiva), ma di “incertezza normativa oggettiva tributaria” cioè una situazione giuridica oggettiva, caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.

In parole povere, il principio non è “se non so di violare una norma tributaria non sono soggetto a sanzioni tributarie”, ma “se la situazione è oggettivamente incerta, non sono soggetto a sanzioni tributarie”.

Sì, ma quando, in concreto, c’è questa incertezza?

La Cassazione viene in aiuto all’interprete e stila un elenco – preoccupandosi di chiarire che non è completo e non esclude che vi possano essere altri casi di “incertezza oggettiva”. Eccolo:

1) nella difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; in parole povere: manca una norma

2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; a parere dello scrivente il criterio, benché importante, è piuttosto lacunoso atteso che la SC non chiarisce che cosa sia “la formula dichiarativa della norma giuridica”. Probabilmente si riferisce alla definizione del presupposto impositivo e/o si riferisce all’ipotesi in cui detto presupposto è difficile da individuare oppure da spiegare o applicare (pensiamo a complicate aliquote ed a casi in cui si sovrappongono fiscalità locale e nazionale). Certo la Cassazione poteva essere più chiara. Anche il concetto di “difficoltà di confezione” non è molto intellegibile. Difficoltà di confezione, per chi? Per il legislatore?

3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; anche qui rimane qualche dubbio sul concetto di “formula dichiarativa”. Certo è che, secondo la Cassazione, se “la formula dichiarativa” è oscura, allora la sanzione non è dovuta. Vien fatto di chiedersi perché sia rilevante solo “la formula dichiarativa” e non la norma intera – interpretazione che potrebbe essere sostenuta estensivamente.

4) nella mancanza di informazioni amministrative o nella loro contraddittorietà; qui la SC è chiara

5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell’adozione di prassi amministrative contrastanti; qui la SC è chiara

6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; visto il continuo susseguirsi di norme è possibile che la giurisprudenza non faccia in tempo a formarsi o stratificarsi.

7) nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei Giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale;  caso tutt’altro che raro e che non abbisogna di spiegazioni.

8) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; la SC è chiara. Va aggiunto che spesso la prassi ignora la giurisprudenza e sovente si pone in contrasto con essa puntando ad ottenere pronunce di secondo o terzo grado.

9) nel contrasto tra opinioni dottrinali; la dottrina ha scarso peso, di solito, ma la norma è chiara.

10) nell’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente. Ipotesi, questa, tutt’altro che infrequente. Ci potrebbero essere dei problemi applicativi ove l’interpretazione del legislatore confermi che una sanzione, nonostante magari un difforme orientamento giurisprudenziale, è dovuta.

Al di à di qualche espressione non facilmente intelligibile, si tratta di una Sentenza che gli operatori del settore soprattutto dovranno tenere presente.

Da ultimo va rammentato che secondo un orientamento  14897/2009) “l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente

Il reclamo – o, per meglio dire, il prericorso tributario – e la mediazione tributaria

A partire dal 1° aprile 2012 è stata introdotta una nuova norma nel processo tributario. Si tratta dell’art. 17bis DLT 546/92.

Questa norma prevede che “Per le controversie di valore non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48. La presentazione del reclamo è condizione di ammissibilità del ricorso. L’inammissibilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

Il legislatore ha introdotto un “filtro” o, per meglio dire, un ulteriore adempimento processuale per una serie statisticamente abbastanza consistente di contenziosi.

Questo adempimento processuale, definito “reclamo” è obbligatorio quando ricorrono due condizioni:

a)      deve trattarsi di controversie che vedono come controparte l’Agenzia delle Entrate

b)      deve trattarsi di controversie di valore pari od inferiore a ventimila euro.

Se manca uno di queste due requisiti, il reclamo non è necessario, anzi, non è possibile.

È bene precisare che, dato che non si tratta di atti dell’Agenzia delle Entrate, non soggetti alla procedura di reclamo:

–         cartella di pagamento. Peraltro ove si contesti la cartella contestando attività propria dell’Agenzia delle Entrate la cartella, secondo quanto sostienela stessa Agenziacon la circolare n° 9 del 19/3/12, diventa soggetta a reclamo. In questi casi si ritiene opportuno avviare il reclamo sia contro l’Agenzia delle Entrate sia – allo scopo d’informarlo – contro l’Agente della Riscossione (Equitalia)

–         avviso di mora di cui alla lett. e) dell’articolo 19, comma 1 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (ipotesi di scuola, dato che è stato abolito da tempo)

–         avviso di intimazione di cui all’articolo 50, comma 2, DPR 29 settembre 1973, n. 602;

–         iscrizione di ipoteca sugli immobili;

–         fermo di beni mobili registrati

–         atti relativi alle operazioni catastali

Sul punto è pienamente condivisibile la tesi espressa dalla Agenzia delle Entrate con la circolare 19/3/12 n°9.

È bene precisare pure che questo nuovo istituto trova applicazione con riferimento alle fattispecie di rifiuto tacito per le quali, alla data del 1° aprile 2012, non siano decorsi novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza di rimborso.

Per converso, il nuovo istituto non si applica alle controversie riguardanti i rifiuti taciti per i quali, alla data del 31 marzo 2012, sia già decorso il termine di novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza.

Il reclamo – e questo è forse l’aspetto più importante – deve essere identico al ricorso (ecco perché forse sarebbe più corretto chiamarlo prericorso) perché, se non viene accolto, si trasforma automaticamente in ricorso.

Non si tratta quindi di un ricorso gerarchico (o in autotuela), ma di qualcosa di ben diverso e di ben più complicato.

Infatti, se il reclamo non viene accolto, il contribuente deve presentare, come visto, un ricorso identico al reclamo e, se il ricorso non è identico, viene respinto per inammissibilità.

Come noto, se il ricorso viene respinto, l’atto impugnato viene confermato.

Il legislatore ha avuto cura di precisare che la inammissibilità deve e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

Il contribuente che debba proporre un reclamo, quindi, deve stare ben attento a non lasciarsi trarre in inganno dal nome: in realtà sta proponendo un ricorso e deve quindi valutare se è in grado o no di farlo (e, in questo secondo caso, se affidarsi ad un professionista).

La procedura per il reclamo (a ulteriore conferma che si tratta, di fatto, di un prericorso) è la stessa prevista per il ricorso tributario.

Si applicano, infatti, prescrive il legislatore, gli artt. 12, 18, 19, 20, 21, 22 comma 4° del Dlt 546/92, quindi con tutte le formalità prescritte dalla legge tranne il versamento del contributo unificato.

L’aspetto più importante è che, a pena di inammissibilità, il reclamo deve essere proposto entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto da reclamare (a meno che non sia previsto un diverso termine da eventuali leggi speciali). Ricordiamo, ancora una volta, che l’inammissibilità del reclamo è causa di inammissibilità del ricorso.

Si pone il problema della sospensione feriale dei termini. Ad avviso dell’Agenzia delle Entrate, la sospensione si applica.

Praticamente, ciò vuol dire che qualora il termine di novanta giorni previsto dal comma 9 dell’articolo 17-bis del DLT 546/1992 venga a cadere nel periodo tra il 1° agosto e il 15 settembre, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio decorre a partire dal 16 settembre.

Operativamente, va rilevato che il contribuente deve depositare copia di tutti i documenti che, in caso di esito negativo del procedimento, il contribuente intenderebbe allegare al ricorso e depositare presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale.

Dal punto di vista pratico possono sorgere non poche difficoltà, visto che a volte i documenti sono numerosi e quindi, in questi casi, è consigliabile notificare il reclamo mediante la procedura di notifica a mani.

Se la procedura di reclamo non si conclude entro novanta giorni, il reclamo produce gli effetti del ricorso.

Questo significa, in pratica, che, in caso di rigetto del reclamo, entro 120 giorni dalla notifica dello stesso, il contribuente deve depositare l’atto e i documenti in commissione tributaria.

Il reclamo non sospende l’atto impugnato e, in particolare, non ne sospende l’efficacia esecutiva. La questione non è di poco conto solo che si consideri che tra gli atti soggetti a reclamo c’è l’avviso di accertamento.

Tuttavia – e dato che a tutti gli effetti il reclamo è un prericorso – il contribuente può, per interpretazione condivisa anche dalla Agenzia delle Entrate nella ormai pluricitata circolare, chiedere la sospensione dell’atto.

La norma in esame, inoltre, prevede che il contribuente possa proporre una mediazione volta a definire in modo non contenzioso la vertenza.

Si tratta di una facoltà e non di un obbligo e lo scopo della previsione è palesemente tentare di deflazionare il contenzioso.

Ad avviso dello scrivente si tratta di una pia illusione posto che si pone il problema, praticamente rilevantissimo, della responsabilità erariale del funzionario che, accordando la mediazione, rinunci ad una parte delle pretese.

Statisticamente, del resto, la conciliazione giudiziale prevista dall’art. 48 del Dlt. 546/92 (istituto analogo a quello in esame) si è rivelata negli anni un flop (diverso discorso deve farsi per l’accertamento con adesione, invece).

Ulteriore ragione perché il contribuente non proponga, nel reclamo, una mediazione tributaria, sta nell’ultimo comma della norma in esame (cioè l’art. 17 bis DLT 546 /92).

Tale comma così dispone: “Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo. Nelle medesime controversie, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria, può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”.

Quindi, il contribuente che proponga una mediazione e se la veda respinta sarà condannato a pagare il 50% delle spese del procedimento di mediazione che lui stesso ha proposto (!).

L’art. 17 bis in discorso prevede, per il vero, che anche l’Ufficio possa formulare una proposta di mediazione.

Questa possibilità sarebbe senza dubbio da tenere in considerazione, ma, atteso che una proposta di questo genere, da parte dell’Ufficio, implica il riconoscimento di criticità nell’atto che l’Ufficio stesso ha emesso (il che sarebbe come dire non che l’agenzia delle entrate ha sbagliato, ma quasi…) e quindi, ancora una volta, possibili responsabilità erariali da parte del funzionario che ha emesso l’atto “mediato”, si reputa che, ancora una volta, il tentativo di mediazione rimarrà confinato nel Regno delle Idee.

Danno biologico. I criteri ambrosiani sono – quasi – legge.

 Nei casi in cui non è la legge a stabilire quanto liquidare ad un soggetto che ha subito un danno alla persona ci si deve affidare, si sa, al prudente apprezzamento del Giudice.

Tuttavia, onde evitare eccessive disparità tra Giudice e Giudice, con questa Sentenza, in un’ottica di certezza del diritto, la Cassazione ha affermato che lo stesso Giudice deve fare ricorso ai criteri elaborati dal Tribunale di Milano, che sono i più diffusi.

Ne consegue che se in giudizio in corso una parte ha chiesto di applicare tali criteri, esposti in tabelle, e il Giudice ne ha adottato degli altri, allora la Sentenza che così decide la causa è impugnabile per violazione di legge.

Questo l’estratto della Sentenza.

Sentenza n. 12408 del 7 giugno 2011

La Corte di cassazione ha stabilito che nella liquidazione del danno alla persona, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c. deve garantire non solo l’adeguata considerazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi. E’ intollerabile ed iniquo, secondo il giudice di legittimità, che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché le relative controversie siano decise da differenti uffici giudiziari. “Equità”, ha affermato al riguardo la Corte, vuol dire non solo proporzione, ma anche uguaglianza. Dall’affermazione di questo generale principio la Corte ha tratto la conclusione che, nei suoi compiti di giudice della nomofilachia, deve rientrare anche quello di indicare ai giudici di merito criteri uniformi per la liquidazione del danno alla persona, e tali criteri sono stati individuati nelle “Tabelle” di riferimento per la stima del danno alla persona elaborate dal tribunale di Milano, trattandosi del criterio più diffuso sul territorio nazionale. Da ciò consegue che, d’ora innanzi, sarà censurabile per violazione di legge la sentenza di merito che non dovesse applicare il suddetto criterio, ovviamente senza adeguatamente motivare lo scostamento da esso. La sentenza si segnala altresì per essersi la Corte preoccupata di indicare alcune direttive – per così dire – di “diritto intertemporale”, precisando che le decisioni di merito già depositate, e non passate in giudicato, le quali non abbiano liquidato il danno biologico in base alle tabelle del Tribunale di Milano, non saranno per ciò solo ricorribili per cassazione (per violazione di legge), se sia mancata in appello una specifica censura in tal senso, e se la parte interessata non abbia prodotto agli atti nel giudizio di appello copia delle suddette tabelle.

Multa annullata, spese compensate: è giusto?

Può capitare che una sanzione amministrativa venga annullata per vizi formali – l’esperienza insegna che ciò accade soprattutto quando il ricorso è proposto da un tecnico.

La prassi – mai abbastanza censurata – ci insegna anche, però, che il Giudice compensa le spese. Questo vuol dire che il Giudice stabilisce che ciascuno si paga la propria attività e, se il privato si è fatto assistere da un avvocato, che le spese di assistenza legale rimangono a carico di chi si è affidato al professionista.

Capita spesso, altresì, che il Giudice motivi la decisione di compensare le spese sostenendo che ciò è “equo” o “giusto” perché la sanzione è stata annullata per vizi formali e non sostanziali.

Con la Sentenza 8144/011 la Cassazione ha – non è la prima volta – censurato questa prassi.

Scendendo nel particolare ha affermato che “Il verbale di contestazione per violazione del codice della strada, infatti, può essere illegittimo tanto per vizi formali quanto per vizi sostanziali, e la prima categoria non è più lieve della seconda, non potendosi sostenere che nell’ordinamento vi sia un favor per gli errori meramente procedurali della pubblica amministrazione”.   

Può anche capitare che il Giudice compensi le spese perché la somma irrogata a seguito di sanzione poi annullata era modesta.

La Cassazione si pronuncia anche su questo punto ed afferma: “Il modesto valore della controversia non è di per sé giustificativo della compensazione, determinando questo la scelta dello scaglione di valore della controversia su cui parametrare la condanna alle spese”.

Infine la Cassazione impone che in caso di annullamento della sanzione vi deve essere condanna alle spese sia quando il cittadino si difende da solo sia quando il cittadino si avvale di un legale. Ciò perché “Non può essere imputato a colpa della parte che ha adito il giudice proponendo l’opposizione a verbale il mancato esercizio della facoltà di difendersi personalmente, giacché il cittadino, con l’adire il giudice e con il farsi assistere innanzi ad esso da un professionista, esercita dei diritti espressamente attribuitigli dall’ordinamento e garantiti dalla Carta costituzionale (Cass., Sez. 2^, 19 novembre 2007, n. 23993)”.

 

Tre riflessioni:

a)      Il principio affermato dalla Cassazione, oltre che equo, appare conforme al dettato legislativo in tema di soccombenza e difficilmente contestabile.

b)      L’obbligo di condanna alle spese dovrebbe valere nei due sensi: chi perde dovrebbe pagare sempre le spese – sia che a perdere sia il cittadino, sia che a perdere sia l’ente che ha emesso la sanzione. In un’ottica di correttezza dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dovrebbe essere perfettamente normale, anzi, una più estesa applicazione di questo principio porterebbe senz’altro ad una deflazione del contenzioso, evitando ricorsi francamente fantasiosi, diminuendo il numero di cause davanti al Giudice di Pace e velocizzando la durata di quelle rimanenti.

c)      Spesso il costo dell’opposizione – vinta – che rimane a carico del cittadino vittorioso è obbiettivamente esiguo, quindi, prima di impugnare la Sentenza che ha ingiustamente compensato le spese, bisogna anche tenere conto delle spese del giudizio di appello (che andrebbero comunque anticipate). Insomma: fra pratica e grammatica rimane ancora una certa differenza.  

 

Uno spunto: sarebbe interessante valutare se e come questo principio possa essere applicato – e, in verità, non si vede perché no – ad altri atti amministrativi annullati per vizi formali oppure (ancora una volta, perché no?) alle cartelle esattoriali.

 

 

Se il giudice di pace conferma la multa.


I giudici di pace possono sbagliare: non è una novità e neppure una grande scoperta.

A prescindere dalla correttezza della decisione, chi si è visto confermare una multa dal Giudice di Pace ha tutto il diritto di impugnare la Sentenza ed andare in Tribunale – magari per sentirsi dare torto un’altra volta… ma tant’è.

Ci si chiedeva però quale tipo di atto e quale tipo di procedura fosse soggetto il giudizio di impugnazione, cioè il Giudizio di secondo grado innanzi al Tribunale.

Più specificamente: si doveva ancora seguire il rito speciale di cui alla l. 689/1981 – cioè quella che prevede la compilazione di più copie, il deposito del ricorso e la fissazione dell’udienza secondo la procedura a tutti ben nota – oppure il rito ordinario? Citazione a comparire ad udienza fissa?.

Sul punto, seguendo l’orientamento del Tribunale di Roma, è intervenuta la Cassazione che, con Sentenza del 10 marzo 2011 n°5826 ha affermato che si deve seguire il rito ordinario.

Ciò perché il rito ordinario si applica anche ai giudizi svoltisi secondo la procedura della l. 689/81 là dove la stessa l. 689/81 nulla dispone e perché, in ogni caso, “Le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non possono ritenersi automaticamente estensibili a quello di appello in assenza di specifica disposizione in tal senso (SSUU 14520/09; 23285/10; 23594/10)”.

Ovviamente la proposizione del giudizio di impugnazione in appello, davanti al Tribunale, non sospende automaticamente l’esecuzione della Sentenza di primo grado.

 

Il balcone “aggettante” – ossia che non serve né come copertura né come sostengo dell’edificio – di chi è?

Con la recente Sentenza 5 gennaio 2011, n. 218 la Cassazione è tornata sulla titolarità del diritto di proprietà dei balconi aggettanti, cioè che non servono né come copertura né come sostengo dell’edificio.

La Suprema Corte ha affermato che essi sono di proprietà esclusiva dell’appartamento al quale ineriscono.

Ciò in quanto, come si legge dalla motivazione, “la c.d. presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 cod. civ. si basa sul carattere strumentale ed accessorio dei beni ivi indicati rispetto alle unità di proprietà esclusiva dei condomini”.

Conseguentemente – prosegue sempre la motivazione – “I balconi “aggettanti”, i quali sporgono dalla facciata dell’edificio, costituiscono solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono e, non svolgendo alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell’edificio – come, viceversa, accade per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio – non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani; pertanto ad essi non può applicarsi il disposto dell’art. 1125 cod. civ.: i balconi “aggettanti”, pertanto, rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono”.

Nello stesso senso si sono espresse Cass. 15913/2007; 14576/20046; 637/2000; 8159/1996.

 

Se invece, a contrario, il balcone serve come  sostegno o copertura dell’edificio allora è di proprietà comune e si applica il disposto dell’art. 1125 c.c. per cui “Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto”.

Privacy e condominio. No alla “gogna” per i condomini morosi.

 In un condominio l’amministratore affigge in bacheca i nomi dei condomini morosi.

Uno di costoro cita in giudizio il condominio chiedendo i danni e lamentando la violazione della privacy (Dlt. 196/2003).

Il Tribunale respinge la domanda del condomino e questi ricorre in Cassazione.

La Suprema Corte cassa la Sentenza dando ragione al condomino ed afferma che i dati dei condomini sono dati personali che possono essere trattati anche senza il consenso dell’interessato, ma il loro trattamento deve avvenire rispettando i principi di “proporzionalità pertinenza e non eccedenza rispetto ai fini per i quali sono raccolti“.

Insomma: non devono essere usati a sproposito.

Affiggerli in bacheca consente anche a soggetti estranei al condominio di sapere che uno dei condomini non paga le spese condominiali e i terzi non hanno questo diritto. Inoltre, rendere edotti gli estranei di tale morosità non giova in alcun modo né alla vita né al bilancio condominiale, finendo invece per ledere la riservatezza del moroso.

Esporre in bacheca i dati dei morosi, insomma, costituisce un’indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile.

In questo senso si esprime l’ordinanza 186 della Cassazione depositata il 4/1/2011.

Va peraltro ricordato che secondo una risoluzione del garante della privacy l’amministratore può segnalare i nominativi dei condomini morosi ai fornitori non pagati onde evitare che costoro aggrediscano esecutivamente i condomini che hanno già pagato la loro quota.

Coordinare i due principi in realtà appare semplice. Se diffondere i dati dei morosi è utile alla vita del condominio e la diffusione è fatta con criterio allora è lecita, diversamente no.

Una pronuncia di cui probabilmente si sentiva il bisogno onde evitare abusi.       

Ampliati (con giudizio) i poteri dell’amministratore nelle controversie condominiali

Con la recente Sentenza 18311 del 6/8/2010 le Sezioni Unite della Cassazione intervengono su una questione spinosa ed in relazione alla quale esistevano, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, due orientamenti contrapposti.

Questa la domanda: può l’amministratore, senza autorizzazione dell’assemblea, costituirsi in giudizio od impugnare decisioni sfavorevoli al condominio?

Le Sezioni Unite hanno risposto in senso affermativo, sposando l’orientamento maggioritario, ma hanno anche imposto all’amministratore di informare l’assemblea per far ratificare il suo operato. In difetto di tale ratifica, l’impugnazione o la costituzione in giudizio devono essere dichiarate inammissibili.

Ma non solo.

L’amministratore che violi tale dovere d’informativa è responsabile dei danni che il condominio dovesse subire.

Discorso diverso, invece, per il caso in cui è il condominio ad agire, cioè per il caso in cui non si limita a contrastare un’azione giudiziale altrui impugnando e costituendosi in giudizio, ma per così dire (la definizione è un po’ imprecisa, ma spero più comprensibile) “agisce per primo”.

In questo caso l’autorizzazione dell’assemblea è necessaria prima d’instaurare il giudizio.

Limitando la disamina ai punti più salienti della Sentenza.

Premesso che in materia di condominio negli edifici, l’organo principale, depositario del potere decisionale, è l’assemblea e che l’essenza delle funzioni dell’amministratore è imprescindibilmente legata al potere decisionale dell’assemblea, le SSU affermano a chiare lettere che anche in materia di azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea che dovrà deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere all’amministratore. Tuttavia l’amministratore ha per legge una rappresentanza passiva … estesa a qualunque azione proposta contro i condomini, e pertanto anche alle azioni di carattere reale, purché si riferiscano alle parti comuni. Questa rappresentanza passiva ha carattere generale che gli viene attribuita dall’art. 1131 2°comma c.c. Secondo le SSUU, tale legittimazione rappresenta il mezzo procedimentale per il bilanciamento tra l’esigenza di agevolare i terzi e la necessità di tempestiva (urgente) difesa (onde evitare decadenze e preclusioni) dei diritti inerenti le parti comuni dell’edificio, che deve ritenersi immanente al complessivo assetto normativo condominiale. Pertanto L’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione dall’assemblea, ma dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

La Sentenza è palesemente ispirata, oltre che da ragioni logico – giuridiche, da un criterio di buon senso. È frequente che, dato che i termini processuali sono stretti, l’amministratore non abbia il tempo di indire l’assemblea oppure che non si raggiungano i quorum. In tali occasioni di “emergenza processuale” l’amministratore, per evitare pregiudizi può quindi agire subito.

Però deve avvisare i condomini appena possibile (le SSUU non dicono esplicitamente quando: è lecito dedurre che tale subito possa essere “la prima assemblea utile”, ma non è da escludere che si possa anche configurare il dovere, per l’amministratore, d’indire un’assemblea straordinaria. Soprattutto, deve limitare l’uso di questo potere eccezionale ai casi in cui, per così dire, il condominio è “attaccato” giudizialmente o da una causa promossa da qualcuno oppure da una Sentenza sfavorevole.

Dato che non erano questioni su cui dovevano decidere, le SSUU lasciano aperti almeno due problemi: che cosa succede agli atti compiuti se l’operato non viene ratificato e a quali conseguenze patrimoniali va incontro l’amministratore che viola il dovere di informativa.

Quanto alla prima domanda (efficacia degli atti) ritengo che essi, anche se perdono efficacia processuale, potrebbero mantenere una qualche forma di efficacia sostanziale perché l’oggetto dell’assemblea, se non diversamente precisato, riguarda l’azione, non il diritto.

 Quanto alla seconda domanda (conseguenze per l’amministratore che violi il dovere d’informativa), la Suprema Corte ha espressamente affermato che tale omissione è giusta causa per la revoca del mandato ad amministrare (l’amministratore “silenzioso” potrebbe quindi essere sfiduciato), mentre quanto ai “danni” reputo che essi vadano valutati tenendo presenti tutte le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’instaurazione di un giudizio non autorizzato (che in teoria potrebbero però anche non esserci perché un contumace non è necessariamente perdente in giudizio).        

Posta elettronica (e posta elettronica certificata): qual è il valore legale?

Tutti ormai scriviamo tramite mail. Tutti, anzi, ci scambiamo corrispondenza tramite posta elettronica… ma qual è il valore legale della posta elettronica?

La questione non è nuovissima, ma recenti sono gl’inviti, da parte del Governo, di dotarsi di una casella di posta elettronica certificata o PEC.

Allora, e senza pretesa di essere troppo approfonditi, è magari opportuno fare un breve “ripassino” della questione.

La posta elettronica semplice è quella che tutti conosciamo: Tizio invia a Caio una mail senza ulteriori specificazioni.

Qual è il valore legale di quella mail, cioè (in altre parole) una volta che si dovesse andare in Tribunale (o dal Giudice di Pace) che valore ha quella mail?

Prima di rispondere è bene precisare che l’intera materia si evolve con grande velocità.

Anzi, verrebbe da dire che si evolve alla velocità della luce.

Ne consegue che quanto si scrive oggi domani non potrebbe valere più.

Detto questo, vediamo di rispondere.

La posta elettronica ordinaria ha lo stesso valore della posta tradizionale ordinaria, ma attenzione: questo non significa che non valga niente.

In materia contrattuale, per esempio,  le mail fanno piena prova se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose riportate (Tribunale di Roma 11/1/10, Tribunale di Cassino 24/2/09, Tribunale di Verona 26/11/2005, Tribunale di Ancona 9/4/2005).

La posta elettronica certificata, o PEC, invece, equivale ad una raccomandata “tradizionale”, cartacea. Si ha la certezza che sia spedita dal mittente e che sia ricevuta dal destinatario ma (attenzione al ”ma”!) purché sia il mittente sia il destinatario siano dotati di PEC.

Detto in altre parole: una mail spedita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica PEC equivale ad una raccomandata. Invece, una mail spedita tramite PEC ad un indirizzo di posta elettronica ordinario equivale ad una lettera ordinaria. Per fare un esempio è come se si spedisse una raccomandata ma, anziché farla firmare per ricevuta, la si infilasse, così com’è, nella casella della posta.

Forse ricorderete che, un po’ di tempo fa, il Governo regalò una PEC – cioè una casella di posta elettronica certificata – a tutti. Bastava andare in posta e compilare il modulo.

In realtà la PEC offerta dal Governo non serve a corrispondere con chiunque, ma solo con la pubblica amministrazione. Tecnicamente, non è proprio una PEC, ma una CEC PAC.

Verrebbe da dire: a caval donato…Forse però il proverbio giusto è un altro. Come disse Lacoonte quando vide il cavallo sulla spiaggia di Troia e seppe che i Troiani, considerandolo un regalo, lo volevano portare in città “Timeo Danaos et dona ferentes” [temo i Greci anche quando portano doni]. Sappiamo tutti che fine ha fatto la città di Troia…

Perché tanta diffidenza?

Perché nella finanziaria in discussione c’è questa norma: La notifica della cartella può essere eseguita, con le modalità di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata, all’indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti dalla legge. Tali elenchi sono consultabili, anche in via telematica, dagli agenti della riscossione. Una delle prime mail certificate che il cittadino si potrebbe veder recapitare potrebbe quindi essere una cartella esattoriale. Ad Equitalia basta andare a vedere gli elenchi di PEC presso le poste.

Alcuni commentatori hanno visto una limitazione della capacità di concorrenza perché uno, per avere una PEC, si dovrebbe affidare solo alle poste e non si potrebbe affidare ad altri.

Io ci vedo un altro rischio.

Pensiamo alla raccomandata tradizionale. Uno riceve una raccomandata, non c’è, vede nella casella della posta l’avviso di deposito e, se è diligente, la va a ritirare (se non lo è, peggio per lui).

Con la posta elettronica certificata, se il computer non funziona, se non si può aprire la posta ecc., questa possibilità non c’è. Il computer del destinatario ha ricevuto la mail? La mail è recapitata. Punto e basta. Non è prevista una seconda chanche.

Più tecnicamente, mi permetto di dubitare della legittimità costituzionale di una norma che non prevede, per il destinatario, lo stesso sistema di garanzie previste dall’art. 140 c.p.c. o dalla legge sulle notifiche a mezzo posta.  

Preavviso di fermo: nuovi profili di tutela in una recente pronuncia delle SSUU

 La Cassazione, a sezioni unite, si pronuncia ancora una volta sul controverso istituto del preavviso di fermo, modificando, in parte, l’orientamento delle sezioni semplici.

Con la recente Sentenza n° 11087/2010 depositata il 7/5/2010 affronta due questioni: la giurisdizione e la impugnabilità del preavviso.

Quanto alla giurisdizione, la risposta è solo parziale.

Il quesito riguarda chi debba decidere in ordine alle questioni attinenti a preavvisi di fermo per debiti tributari e chi debba decidere, invece, a preavvisi di fermo per debiti non tributari.

La Cassazione, trincerandosi dietro la inammissibilità del quesito si limita ad osservare che “al giudice tributario appartiene la cognizione delle obbligazioni di natura fiscale, mentre il giudice ordinario giudica delle altre materie” e dunque, a suo tempo, bene fece il Giudice a quo a tenere distinte le due specie di obbligazioni.

Quanto alla impugnabilità del preavviso, invece, la Cassazione dice di più e, soprattutto, dice cose più interessanti.

La domanda è se il preavviso di fermo – che è atto diverso dal fermo vero e proprio in quanto si limita a preannunciarlo – sia impugnabile o no (ovviamente Equitalia, ricorrendo in Cassazione, sosteneva di no, peraltro sulla scorte di altri precedenti di legittimità e di merito).

La Cassazione ha innanzi tutto osservato che sul preavviso di fermo sottoposto alla sua attenzione (ma, per quanto è dato sapere, quasi tutti i preavvisi sono così) è scritto che, decorsi venti giorni dalla notifica senza che sia stato eseguito il pagamento “senza ulteriore preavviso” si provvederà al fermo.

Partendo da questo dato testuale la Cassazione letteralmente afferma che “l’atto impugnato vale come comunicazione ultima della iscrizione del fermo entro i successivi venti giorni. Di qui l’interesse ad impugnare“.

Con ciò il Collegio ha respinto la tesi di Equitalia secondo la quale il preavviso equivale, in pratica, ad una semplice raccomandata di messa in mora e, dunque, non c’è un interesse giuridicamente tutelabile.

Da apprezzare anche il fatto che le SSUU si dilunghino anche nel ragionamento a contrario osservando che a seguire la tesi opposta il contribuente dovrebbe attendere il decorso dei venti giorni per impugnare direttamente l’iscrizione del fermo, direttamente in sede di esecuzione. Ciò, osservano le SSUU è un aggravio di spese e perdita di tempo assolutamente priva di senso.

Polemicamente, ci si potrebbe domandare che senso avevano, allora, le Sentenze delle Commissioni Tributarie e dei Giudici ordinari che negavano che si potesse impugnare il semplice preavviso…

Con onestà intellettuale e precisione di giudizio le SSU danno atto che non ignora il collegio che taluni arresti, anche recenti (Cass. 20301/08 Cass 8890/09 – di cui peraltro si trova menzione anche su questo sito) hanno escluso la impugnabilità del provvedimento per carenza di interesse ma tale indirizzo deve ritenersi superato… a nulla rilevando che detto preavviso non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nell’art. 19 Dlt. 549/62 in quanto tale elencazione va interpretata in senso estensivo .. per ragioni di tutela del contribuente.

Le SSUU precisano altresì che “analoghe considerazioni valgono allorquando il preavviso di fermo riguardi obbligazioni extratributarie.

Ricapitolando, le SSUU, cambiando orientamento rispetto al passato, affermano che il preavviso di fermo è impugnabile.

Davanti a chi rimane ancora questione aperta e di cui, verosimilmente, si sentirà ancora parlare.