Edilizia residenziale pubblica: secondo il TAR Lombardia, prima di “cacciare” di casa l’occupante abusivo, l’Amministrazione deve accuratamente esaminare le sue condizioni soggettive

Con un’interessante ordinanza ottenuta dal nostro studio(la n.1502/2011 del 28 settembre 2011) il TAR Lombardia, Sezio Prima, occupandosi del caso di un soggetto gravemente disabile occupante abusivo di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, ha stabilito l’importante principio per il quale l’Amministrazione, prima di notificare il decreto di rilascio dell’immobile occupato, non può prescindere da un previo accurato esame delle sue condizioni soggettive (sanitarie ed economiche in particolare).
Dave in sostanza essere esclusa ogni forma di automatismo.
Nel caso in esame l’amministrazione aveva dichiarato di agire ai sensi e per gli effetti dell’art. 24 del regolamento regionale 10 febbraio 2004, n.1.
Sennonché detta norma sembra autorizzare l’amministrazione all’esercizio di un potere vincolato senza che possano trovare alcun rilievo le condizioni personali, familiari ed abitative degli interessati e con l’ulteriore effetto distorsivo dell’apparente preclusione rispetto alla possibilità di accedere regolarmente ad un nuovo alloggio attraverso i bandi comunali.
Pertanto, qualora tale norma venisse interpretata, come in effetti fatto dal Comune, secondo un criterio squisitamente letterale, evidente sarebbe il suo contrasto con la Costituzione nonché con numerose norme del diritto internazionale pattizio e del diritto europeo (ormai fonti primarie del diritto dell’Unione europea o comunque vincolanti ex art. 117 comma 1 della Costituzione) che delineano l’esistenza di un vero e proprio diritto all’abitazione ovvero all’assistenza abitativa che si pone irrimediabilmente in contrasto con l’apparente “automatismo” della norma regolamentare regionale in tema di rilascio. Continua a leggere

Il balcone “aggettante” – ossia che non serve né come copertura né come sostengo dell’edificio – di chi è?

Con la recente Sentenza 5 gennaio 2011, n. 218 la Cassazione è tornata sulla titolarità del diritto di proprietà dei balconi aggettanti, cioè che non servono né come copertura né come sostengo dell’edificio.

La Suprema Corte ha affermato che essi sono di proprietà esclusiva dell’appartamento al quale ineriscono.

Ciò in quanto, come si legge dalla motivazione, “la c.d. presunzione di condominialità di cui all’art. 1117 cod. civ. si basa sul carattere strumentale ed accessorio dei beni ivi indicati rispetto alle unità di proprietà esclusiva dei condomini”.

Conseguentemente – prosegue sempre la motivazione – “I balconi “aggettanti”, i quali sporgono dalla facciata dell’edificio, costituiscono solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono e, non svolgendo alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura dell’edificio – come, viceversa, accade per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio – non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani; pertanto ad essi non può applicarsi il disposto dell’art. 1125 cod. civ.: i balconi “aggettanti”, pertanto, rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono”.

Nello stesso senso si sono espresse Cass. 15913/2007; 14576/20046; 637/2000; 8159/1996.

 

Se invece, a contrario, il balcone serve come  sostegno o copertura dell’edificio allora è di proprietà comune e si applica il disposto dell’art. 1125 c.c. per cui “Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto”.

Privacy e condominio. No alla “gogna” per i condomini morosi.

 In un condominio l’amministratore affigge in bacheca i nomi dei condomini morosi.

Uno di costoro cita in giudizio il condominio chiedendo i danni e lamentando la violazione della privacy (Dlt. 196/2003).

Il Tribunale respinge la domanda del condomino e questi ricorre in Cassazione.

La Suprema Corte cassa la Sentenza dando ragione al condomino ed afferma che i dati dei condomini sono dati personali che possono essere trattati anche senza il consenso dell’interessato, ma il loro trattamento deve avvenire rispettando i principi di “proporzionalità pertinenza e non eccedenza rispetto ai fini per i quali sono raccolti“.

Insomma: non devono essere usati a sproposito.

Affiggerli in bacheca consente anche a soggetti estranei al condominio di sapere che uno dei condomini non paga le spese condominiali e i terzi non hanno questo diritto. Inoltre, rendere edotti gli estranei di tale morosità non giova in alcun modo né alla vita né al bilancio condominiale, finendo invece per ledere la riservatezza del moroso.

Esporre in bacheca i dati dei morosi, insomma, costituisce un’indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile.

In questo senso si esprime l’ordinanza 186 della Cassazione depositata il 4/1/2011.

Va peraltro ricordato che secondo una risoluzione del garante della privacy l’amministratore può segnalare i nominativi dei condomini morosi ai fornitori non pagati onde evitare che costoro aggrediscano esecutivamente i condomini che hanno già pagato la loro quota.

Coordinare i due principi in realtà appare semplice. Se diffondere i dati dei morosi è utile alla vita del condominio e la diffusione è fatta con criterio allora è lecita, diversamente no.

Una pronuncia di cui probabilmente si sentiva il bisogno onde evitare abusi.       

Ampliati (con giudizio) i poteri dell’amministratore nelle controversie condominiali

Con la recente Sentenza 18311 del 6/8/2010 le Sezioni Unite della Cassazione intervengono su una questione spinosa ed in relazione alla quale esistevano, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, due orientamenti contrapposti.

Questa la domanda: può l’amministratore, senza autorizzazione dell’assemblea, costituirsi in giudizio od impugnare decisioni sfavorevoli al condominio?

Le Sezioni Unite hanno risposto in senso affermativo, sposando l’orientamento maggioritario, ma hanno anche imposto all’amministratore di informare l’assemblea per far ratificare il suo operato. In difetto di tale ratifica, l’impugnazione o la costituzione in giudizio devono essere dichiarate inammissibili.

Ma non solo.

L’amministratore che violi tale dovere d’informativa è responsabile dei danni che il condominio dovesse subire.

Discorso diverso, invece, per il caso in cui è il condominio ad agire, cioè per il caso in cui non si limita a contrastare un’azione giudiziale altrui impugnando e costituendosi in giudizio, ma per così dire (la definizione è un po’ imprecisa, ma spero più comprensibile) “agisce per primo”.

In questo caso l’autorizzazione dell’assemblea è necessaria prima d’instaurare il giudizio.

Limitando la disamina ai punti più salienti della Sentenza.

Premesso che in materia di condominio negli edifici, l’organo principale, depositario del potere decisionale, è l’assemblea e che l’essenza delle funzioni dell’amministratore è imprescindibilmente legata al potere decisionale dell’assemblea, le SSU affermano a chiare lettere che anche in materia di azioni processuali il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea che dovrà deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere all’amministratore. Tuttavia l’amministratore ha per legge una rappresentanza passiva … estesa a qualunque azione proposta contro i condomini, e pertanto anche alle azioni di carattere reale, purché si riferiscano alle parti comuni. Questa rappresentanza passiva ha carattere generale che gli viene attribuita dall’art. 1131 2°comma c.c. Secondo le SSUU, tale legittimazione rappresenta il mezzo procedimentale per il bilanciamento tra l’esigenza di agevolare i terzi e la necessità di tempestiva (urgente) difesa (onde evitare decadenze e preclusioni) dei diritti inerenti le parti comuni dell’edificio, che deve ritenersi immanente al complessivo assetto normativo condominiale. Pertanto L’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione dall’assemblea, ma dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione.

La Sentenza è palesemente ispirata, oltre che da ragioni logico – giuridiche, da un criterio di buon senso. È frequente che, dato che i termini processuali sono stretti, l’amministratore non abbia il tempo di indire l’assemblea oppure che non si raggiungano i quorum. In tali occasioni di “emergenza processuale” l’amministratore, per evitare pregiudizi può quindi agire subito.

Però deve avvisare i condomini appena possibile (le SSUU non dicono esplicitamente quando: è lecito dedurre che tale subito possa essere “la prima assemblea utile”, ma non è da escludere che si possa anche configurare il dovere, per l’amministratore, d’indire un’assemblea straordinaria. Soprattutto, deve limitare l’uso di questo potere eccezionale ai casi in cui, per così dire, il condominio è “attaccato” giudizialmente o da una causa promossa da qualcuno oppure da una Sentenza sfavorevole.

Dato che non erano questioni su cui dovevano decidere, le SSUU lasciano aperti almeno due problemi: che cosa succede agli atti compiuti se l’operato non viene ratificato e a quali conseguenze patrimoniali va incontro l’amministratore che viola il dovere di informativa.

Quanto alla prima domanda (efficacia degli atti) ritengo che essi, anche se perdono efficacia processuale, potrebbero mantenere una qualche forma di efficacia sostanziale perché l’oggetto dell’assemblea, se non diversamente precisato, riguarda l’azione, non il diritto.

 Quanto alla seconda domanda (conseguenze per l’amministratore che violi il dovere d’informativa), la Suprema Corte ha espressamente affermato che tale omissione è giusta causa per la revoca del mandato ad amministrare (l’amministratore “silenzioso” potrebbe quindi essere sfiduciato), mentre quanto ai “danni” reputo che essi vadano valutati tenendo presenti tutte le conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’instaurazione di un giudizio non autorizzato (che in teoria potrebbero però anche non esserci perché un contumace non è necessariamente perdente in giudizio).        

Casa nuova, spese condominiali vecchie.

 È buona norma ricordarsi il disposto dell’art. 63 disp. Att. c.c. che prescrive “Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente“. Per questa ragione, è buona norma, quando si compra casa, chiedere il c.d. “certificato di pagate spese”, cioè un’attestazione che acclari che il venditore è in regola coi pagamenti condominiali.

E se non accade?

Come sopra letto, il condominio può chiedere ad acquirente e compratore il pagamento delle spese condominiali predette (cioè quelle relative all’anno in corso ed a quello precedente).

Come?

La Cassazione, confermando un precedente orientamento, esclude che il condominio possa chiedere un Decreto Ingiuntivo ad un ex condomino.

Con la recente Sentenza 23686/09 – sezione II – ha affermato che non esiste il “condomino apparente”. “L’obbligo di pagamento degli oneri condominiali ex art. 1104 c.c. è collegato al rapporto di natura reale che lega l’obbligato alla proprietà dell’immobile”, quindi “alla perdita di quella qualità consegue che non possa essere chiesto né emesso nei suoi confronti decreto ingiuntivo” (conforme v. Cass. 23345/2008)

Ovviamente, questo non significa che il venditore moroso non debba pagare.

A così ritenere, infatti, si finirebbe per abrogare l’art. 63 disp. Att. sopra citato.

Su questo punto la cassazione ha così affermato “l’obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell’edificio deriva non dalla preventiva approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, atteso il carattere meramente dichiarativo di tali delibere, ma dal momento in cui sia sorta la necessità della spesa ovvero la concreta attuazione dell’attività di manutenzione e quindi per effetto dell’attività gestionale concretamente compiuta e non per effetto dell’autorizzazione accordata all’amministrazione per il compimento di una determinata attività di gestione, cfr. tra le altre Cass. 12013/2004 (v. In motivazione); 6323/2003; 4393/1997.

L’obbligazione di corrispondere i contributi relativi al godimento dei beni e dei servii comuni può qualificarsi reale, nel senso che la titolarità del soggetto passivo è determinata in base al rapporto di natura reale esistente con la cosa al momento in cui sorge l’obbligazione” Giustamente, quindi si afferma “l’esistenza del credito azionato nei confronti del venditore  in quanto relativo alla gestione di beni e di servizi condominiali concernente un periodo di tempo anteriore alla vendita dell’appartamento“. (v. sempre Cass. 23345/2008) .

Quindi, l’ex condomino può essere richiesto del pagamento, ma non con un Decreto Ingiuntivo, che può essere pronunciato solo contro l’attuale condomino.

Se ne può dedurre che contro l’ex condomino sia possibile un atto di citazione ordinario.  

Il condominio in frantumi e la notifica del titolo esecutivo

Qualche tempo fa, commentando la nota Sentenza delle SSUU circa la fine, almeno per certi versi, della solidarietà tra condomini in materia condominiale, ci si domandava “Sul piano processuale (ma qui è d’obbligo procedere con molta cautela) si potrebbe porre il problema della notifica del titolo esecutivo” e si restava in attesa di pronunce della giursprudenza che affrontassero la questione.

Una  delle prime in materia è la Sentenza 11/3/2009 n° 6693 del Tribunale di Napoli.

Il caso era quello di un soggetto che aveva ottenuto un Decreto Ingiuntivo contro un condominio e, non pagato, aveva notificato atto di precetto ad un condomino.

Questi si opponeva eccependo che nessuno aveva mai notificato a lui il decreto ingiuntivo in forma esecutiva.

Il decreto era stato notificato infatti al condominio, ma mai al condomino.

Il Giudice ha ritenuto che non sia dubbia la c.d. efficacia espansiva del titolo esecutivo, ma sia incerto se, prima di procedere contro il singolo condòmino, sia necessario notificare anche a lui personalmente il Decreto.

Il giudice partenopeo ha risolto il dubbio rispondendo di no.

Secondo il Giudice è sufficiente che il creditore notifichi il titolo esecutivo al condominio. Una volta soddisfatto questo incombente, il creditore può agire in executivis contro il singolo condòmino.

Ciò in quanto l’art. 654 c.p.c., che esclude la “rinotifica” del titolo ai fini dell’eecuzione è norma speciale  che prevale sulla norma generale di cui all’art. 479 c.p.c.

La dottrina (v. nota di Ghigo Giuseppe Caccia in “Altalex” articolo del 9/10/2009) opina che la norma di cui all’art. 654 si riferisce al caso in cui il debitore è sempre lo stesso, mentre, nel caso di specie, il titolo è stato notificato prima ad un soggetto (il Condominio) e poi ad un altro soggetto (il condòmino) distinto dal primo.

Dal punto di vista teorico, per quanto possa valere l’opinione personale dello scrivente, l’obiezione coglie nel segno. Anzi, si può andare ancora oltre. Se si ritiene che l’obbligazione del condòmino sia parziaria (come affermano le SSUU) e che condòmino e condominio siano soggetti non confondibili, si potrebbe anche sostenere che, per poter agire nei confronti del singolo, è necessario notificargli un titolo esecutivo “parziario” e specificamente diretto contro di lui per la quota che lo riguarda.  A giudizio di chi scrive, se si ragionasse diversamente (come si può dire faccia il Tribunale di Napoli) si perverrebbe ad una specie di “notifica collettiva ed impersonale” al di fuori dei casi di successione iure hereditario.   Tale procedura, siccome (ancora una volta) speciale, non può, sempre a parere dello scrivente, essere applicata in via estensiva al di fuori delle succesioni mortis causa.

Al di là delle riflessioni teoriche, tuttavia, la prassi è allo stato orientata nel senso che sembra. La ragione potrebbe essere (e, in un punto, la Sentenza in commento lo suggerisce) l’esigenza di una “maggiore speditezza” del processo esecutivo.

Tale esigenza non può essere tenuta in non cale, sicchè sarà interessante verificare se e quali altri Tribunali aderiranno all’orientamento di quello di Napoli e quale altro orientamento seguiranno le Corti superiori.

Forse (?) si potrebbe arrivare a porre nuovamente la questione all’attenzione della Suprema Corte, magari suggerendo una “rimeditazione” della Sentenza SSUU 9148/2008.

E’ fuori di dubbio, infatti, che tale pronuncia, oltre a sollevare numerosi problemi, moltiplica i procedimenti (ed i relativi costi).

A tale proliferazione di contenzioso cerca di rimediare, quantomeno sul piano esecutivo, la pronuncia del Tribunale di Napoli qui commentata.

  

Uso del cortile condominiale come parcheggio e regolamento di condominio.

 Questo il caso: un regolamento condominiale non trascritto vieta di utilizzare il cortile condominiale come parcheggio. Nondimeno, taluni condomini sono soliti parcheggiare in luogo i propri veicoli.

Sorge una controversia che, dal Giudice di Pace, finisce in Cassazione.

La suprema corte così afferma: le norme da prendere in considerazione sono  l’art. 1102 c.c. e l’art. 1117 c.c.

La prima  norma afferma che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso” (1102 c.c.) mentre la seconda norma elenca le cose comuni, tra le quali ci sono i cortili.

La Cassazione ha affermato che usare il cortile condominiale come parcheggio è utilizzo compatibile con il principio affermato dall’art. 1102 e sempre che siano rispettati i limiti imposti da detta norma. Testualmente, afferma la corte, “un tale divieto (cioè quello di usare il cortile come parcheggio) non si può ricavare dal disposto dall’art. 1102 ” .

Mi pare opportuno integrare la pronuncia con due osservazioni.

La prima è che sta ai condomini la facoltà di disciplinare l’uso della cosa comune – e penso per esempio alle disposizioni regolamentari in materia di carico e scarico merci, ai giochi dei bambini etc..

La seconda è che tali limiti rappresentano, ad avviso dello scrivente, disposizioni regolamentari (sulla distinzione tra disposizioni regolamentari e contrattuali v. per esempio Cass. 14/8/2007 n°17694) come tali modificabili ex art. 1136 c.c.

Per quanto è dato ricostruire dallo “svolgimento del processo” della Sentenza di cui sopra, i giudici hanno attribuito al divieto assoluto di utilizzo del cortile condominiale natura di disposizione contrattuale e come tale modificabile solo con l’unanimità dei condomini ed opponibile agli stessi ed ai loro aventi causa solo se trascritta.

Poiché, nel caso in esame, il regolamento non era stato adottato all’unanimità e, soprattutto, non era stato trascritto, la Cassazione ha confermato la Sentenza del giudice di Pace che aveva ritenuto inefficace il divieto assoluto di parcheggio.     

Il condominio in frantumi e l’opinione (personalissima) dello scrivente.

Spronato dai commenti, e anche dal fatto che, forse, qualche utente del diritto frequenta questo sito, oserei esporre il mio personalissimo parere sulla Sentenza delle SSUU che afferma la natura parziaria delle obbligazioni del condominio.

E’ tesi, anzi, ancor meno: riflessione affatto personale;  il principio della Cassazione a Sezioni Unite è quello espresso nella Sentenza di cui sopra.

Quanto segue è idea mia, forse totalmente, forse parzialmente sbagliata  (non oso dire: forse giusta), sicuramente aperta a contributi e revisioni – anche radicali.

Si è visto che la Cassazione a SSU parte dal concetto di divisibilità dell’obbligazione pecuniaria del condominio verso il fornitore per dedurre la parziarietà di tale obbligazione.

Volendo essere più realisti del re, osserverei innanzi tutto che posso pulire il 2° piano e non il primo, che posso rifare mezzo tetto – oppure una sola palazzina etc.. Quindi a volte anche l’obbligazione del fornitore è divisibile (tant’è che spesso viene pagata a Stato Avanzamento Lavori), ma non è tanto questo il punto.

Il punto è che mi pare che il codice (1292 c.c.) dica: l’obbligazione è solidale quando può essere adempiuta in un certo modo etc. etc. Non dice cioè: l’obbligazione solidale è X e, se è solidale (quindi uguale ad X), allora deve essere adempiuta così.

L’obbligazione viene definita solidale in funzione delle peculiari modalità del suo adempimento. Non in funzione di sue caratterische intrinseche (chiamiamole pure consustanziali od ontologiche, se ci piace).

La cassazione dice invece: l’obbligazione dei condomini verso il fornitore (ma non viceversa) è divisibile. Anzi, è comodamente divisibile. Quindi non è solidale. Ma il codice non dice mica che le obbligazioni solidali debbano essere necessariamente indivisibili. Anzi, di indivisibilità non parla proprio.

Dice solo che la prestazione deve essere una; letteralmente, “la medesima”. Ma ciò non vuol dire “divisbile”.

Anzi – e maggior ragione – se si guarda l’art. 1314 c.c. si legge “se più sono i debitori di una prestazione divisibile e l’obbligazione non è solidale…” allora l’adempimento è parziario. Segno (secondo me) che ci possono essere obbligazioni divisibili solidali e obbligazioni divisibili parziarie.
Ma divisibilità non vuol dire affatto automaticamente parziarietà.
Prova ne sia che il successivo art. 1317 c.c. afferma “le obbligazioni indivisibili sono regolate dalle norme relative alle obbligazioni solidali”.
Se fosse come dicono le SSUU, la norma sarebbe scritta al contrario e cioè “le obbligazioni solidali sono regolate dalle norme sulle obbligazioni indivisibili”. Ma così non è.
Il principio del 1317 cioè non funziona anche all’inverso. Almeno a mio parere.

Quello che le SSUU sottendono – o sottintendono, ma neanche troppo – è, invero, e sempre a mio giudizio, che in realtà il condominio non è un soggetto di diritto unitario. Prova ne sia che criticano la sua qualificazione in termini di “ente di gestione”.
Se il condominio cessa di essere ente unitario allora esistono solo i condomini – che, logicamente, non possono essere che tenuti pro quota.
Di qui le conseguenze di cui alla citata Sentenza.

A prescindere da questo, è vero e sacrosanto che il legislatore non dice espressamente che le obbligazioni assunte dal condominio verso terzi sono solidali. Ma non dice nemmeno il contrario.

Una riflessione sui profili fiscali m’induce ad un’altra considerazione: sappiamo che il condominio è sostituto d’imposta e soggetto a taluni tributi.

Orbene: se io condominio non verso la ritenuta d’acconto del 4% o non adempio ai mei obblighi fiscali in generale, allora il fisco – seguendo il ragionamento della Cassazione – dovrebbe prenderesela pure lui pro quota con singoli condomini insolventi (e mi vien fatto di pensare alla tarsu, alle sanzioni comminate perchè Tizio Caio o Sempronio non separano la spazzatura etc. etc.)

Non mi pare logico che per il fisco il condominio sia un soggetto unitario, mentre per il sig. Giovanni che ha un impresa edile, no.

Quindi se il comune, per entrate sue non tributarie, pignora l’appartamento del sig. Mario perchè il condominio a cui il Sig. Mario appartiene non paga un’imposta, il sig. Mario potrà proporre opposizione all’esecuzione, con la certezza di vincerla (soprattutto in Cassazione …).

Per quanto riguarda le entrate tributarie, per le quali l’opposizione all’esecuzione non è ammessa, il sig. Mario potrà chiedere i danni ad Equitalia perchè gli ha pignorato la casa per un debito non suo e generato da un’insolvenza di cui non ha alcuna colpa.

Al di là della battuta (è fin troppo facile criticare i rivolti pratici della Sentenza in commento) mi pare che il legislatore consideri sotto più aspetti il condominio come centro unitario d’imputazione di rapporti giuridici (visto che non si vuole chiamarlo ente di gestione).

E i giudici sono soggetti solo alla legge. Non alla cassazione. Neppure alle SSUU.

Visto che, tutto sommato, mi pare sostenibile che il condominio sia centro unitario di rapporti giuridici (ma poi magari m sbaglio, resto in attesa di pareri contrarii) resta da verficare se l’equivalenza  divisibilità = parziarietà sia così pacifica, logica, insormontabile.

Secondo me, no. Ma non so che ne pensate voi…  

Parziarietà dell’obbligazione condominiale: il condominio in frantumi.

E’ notissima anche ai non addetti ai lavori, ai quali il presente articolo è sopprattutto diretto, la dirompente Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, datata 8/4/2008 ed avente il n° 9148.

Componendo un contrasto giurisprudenziale e sposando, con una certa sorpresa, la linea minoritaria, la Cassazione ha affermato la natura parziaria delle obbligazioni contratte dal condominio.

Che cosa vuol dire?

La legge (semplificando il concetto) definisce solidali le obbligazioni quando il creditore ha più debitori, ma può costringere uno qualunque di essi a pagare l’intero debito. Ovviamente, una volta che il creditore ha conseguito il pagamento, è soddisfatto, e nulla più può pretendere. Sarà poi il malcapitato condebitore ad agire contro gli altri condebitori per chiedere loro, ciascuno per la sua parte, la restituzione di quanto anticipato al loro posto.

Ovviamente, la definizione legislativa è più articolata e si rinviene negli art. 1292 e ss. c.c., ma, per i fini che ci interessano, quanto sopra può bastare.

Come è noto, fino a poco tempo fa, la giurisprudenza assolutamente prevalente affermava che le obbligazioni contratte da un condominio erano solidali.

Dunque, se un fornitore aveva un credito verso un condominio, poteva agire contro uno qualunque dei condomini e chiedere di pagargli l’intero, magari (se si era costretti ad arrivare alla fase esecutiva) pignorandogli l’appartamento. Sarebbe stata poi cura di quel condomino agire contro gli altri condomini e ripetere, nei loro confronti, la quota anticipata.

Solo qualche pronuncia isolata affermava la natura parziaria dell’obbligazione contratta dal condominio.

Solo qualche Sentenza, cioè, affermava che il creditore del condominio (nel nostro esempio, il fornitore) poteva chiedere a ciascun condomino solo la sua quota di debito (calcolata in base ai millesimi).

Per esemplificare:

1) se si reputa che l’obbligazione del condominio sia solidale, se il fornitore è creditore di 100 ed il condominio è composto di 10 condomini ciascuno con 100 millesimi, il fornitore può chiedere 100 al condomino X; il condomino X agirà poi, a sua volta, contro gli altri.

2) se si reputa che l’obbligazione del condominio sia parziaria, nell’esempio di cui sopra il fornitore potrà chiedere solo 10 al  condomino X (e nulla più), 10 ad Y, 10 a Z etc..

Bene; con la detta Sentenza le SSU affermano (contrariamente a quanto le sezioni semplici avevano finora, a maggioranza, affermato) che l’obbligazione contratta dal condominio è parziaria.

Le SSUU (un inciso: la Sentenza è di facile lettura pure per chi mastichi anche appena un poco di diritto) affermano che nel caso di specie (obbligazione contratta da un condominio) ci sono più debitori (i condomini), la unicità della causa (cioè un unico rapporto, per esempio un contratto, nato nell’interesse del condominio), ma non una prestazione unica ed indivisibile.  Per meglio dire: per il creditore, di solito l’obbligazione è unica ed indivisibile (non posso rifare la facciata per un condomino sì ed uno no), per il debitore no. Il condominio è tenuto (di solito) a pagare una somma di denaro, e questa può essere sempre divisa con una semplice operazione aritmetica.

Ebbene: affermano le SSU che non c’è nessuna norma che imponga che tale obbligo di pagamento sia solidale. Si tratta, in sintesi (afferma la cassazione) di obbligazioni propter rem collegate al godimento della cosa. E – ma questo lo aggiunge o scrivente – la quantità di godimento è espressa secondo i criteri di riparto (tabelle millesimali etc).

E’ vero, proseguono le SSUU, che il condominio viene definito “ente di gestione”, ma si tratta di una definizione che non gli si addice perchè gli enti di gestione, come le società, sono cosa diversa.

Insomma (e per farla breve):  poichè l’obbligo di pagare un debito contratto da un condominio nel proprio interesse è divisibile, trattandosi di somma di denaro, tale obbligazione è parziaria. Il creditore potrà agire contro i condòmini per chiedere loro solo il pagamento della loro quota. E basta.

Certo, scrivono le SSUU, se l’obbligazione fosse solidale, il creditore sarebbe più garantito, ma il criterio della parziarietà appare più equo dal punto di vista sostanziale.

Chiunque abbia una vaga coscienza della vita di un condominio (sia permessa una battuta: i giudici, di solito, non vivono in condominio) può ora ipotizzare quali potrebbero essere le conseguenze di tale siffatto principio (tanto più dirompente, quanto più sono le SSUU ad afferamarlo).

Il fornitore, di solito, non ha sottomano le tabelle millesimali (che sono più complesse di quelle che usato nel mio esempio: 10 condomini con 100 millesimi ciascuno). Anzi, di solito non ha nemmeno i nominativi dei condomini.

Quindi, se non viene saldato, potrebbe avere qualche difficoltà (diciamo così) a recuperare il proprio credito.

Per esempio, anche se solo osa chiedere il pagamento di una quota pari a 100 millesimi ad un condomino che di millesimi ne ha 99,99. Ritengo che costui potrebbe validamente opporsi alla richiesta di pagamento eccependo con successo che gli viene chiesta una quota superiore rispetto a quella che gli compete.

Oppure se, avendo ottenuto il pagamento di 99 su un debito di 100, vuole ottenere il residuo 1. Il creditore, reputo, non potrà chiedere quell’1 al condomino che gli ha già pagato la sua quota. Costui, penso, potrebbe validamente eccepire di aver già dato quello che doveva dare e, forte del principio della Cassazione a Sezioni Unite, di non dover dare null’altro. E magari il creditore non sa neppure chi sia il “responsabile” dell’insoluto.

Sul piano processuale (ma qui è d’obbligo procedere con molta cautela) si potrebbe porre il problema della notifica del titolo esecutivo… e via discorrendo.

Certo (e per rimanere al caso ipotizzato dalle SSUU) chiunque, prima di rifare la facciata di un condominio (o anche solo le pulizie) ci penserà due volte (o forse, tante volte quanti sono i condomini dai quali rischia di non vedersi pagata la rispettiva quota).

L’espediente potrebbe essere (ma è bene precisare che questa è solo l’opinione dello scrivente) quello di procurarsi a priori un titolo (per esempio, un contratto) che sancisca preventivamente la natura solidale dell’obbligazione, precisando cioè che tutti i condomini possono essere tenuti a pagare l’intero debito, e non solo la loro quota. Sorge spontaneo, allora, chiedersi se l’amminsitratore abbia il potere di firmare una clausola siffatta, oppure se una clausola di questo tipo sia vessatoria od abusiva etc..

Tuttavia, allo stato, è agevole ipotizzare che i contratti con una clausola simile siano pochi. Fino ad aprile, invero, non se ne avvertiva il bisogno.

Certo, coloro che lavorano per i condomini, d’ora in poi, dovranno stare molto attenti e la certezza del recupero del credito ne soffrirà (di riflesso, tutto il lavoro nel settore potrebbe subire una contrazione – ma questo è tema che ci porterebbe lontano).

Certo è possibile ipotizzare che, là dove c’era una causa per recuperare un credito di un fornitore nei confronti di un condominio ce ne saranno ora dieci cento, mille, tanti quanti sono i debitori insolventi condòmini di quel condominio.

E le aule di giustizia s’intaseranno ancora di più. Oppure aumenterà l’esposizione debitoria dei fornitori di condomini. O tutt’e due le cose insieme…

Non pare che ciò corrisponda alle “esigenze di giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici ” e – aggiungerei – dello Stato nel suo complesso. Ma questa è opinione affatto personale.

Un’interessante orientamento del Tribunale di Milano in punto di morosità condominiali

Va innanzi tutto precisato che quello che segue è un caso limite.

Si tratta di un condominio, nell’hinterland milanese, talmente degradato da avere maturato, nel corso degli anni, una morosità, nei confronti dei fornitori, di circa centomila euro. Ovviamente, la morosità era determinata dal fatto che alcuni condomini non pagavano le spese condominiali. Tale situazione si era protratta negli anni fino a raggiungere l’importo sopra detto (centomila euro, appunto) così che il condominio rischiava di essere privato del riscaldamento, dell’acqua potabile e di altri servizi essenziali.

  Con ricorso al Tribunale, l’Amministratore del condominio, sul presupposto che:

a) lo stato dello stabile era  quello sopra descritto, cioè disperato

b) i condomini morosi erano  ben individuati e, pur essendo iniziate nei loro confronti delle procedure esecutive, le stesse avrebbero avuto una durata tale che, nel frattempo, gli enti erogatori avrebbero interrotto il rifornimento di gasolio e la somministrazione di acqua. Gli altri condomini, solventi, non potevano “fare cassa” per gl’insolventi.

c) il Regolamento condominiale lo permetteva

ha chiesto ed ottenuto di staccare i condomini morosi dal riscaldamento, dall’acqua etc.

Ovviamente, la struttura delle tubature condominiali permetteva un’operazione simile.

Forte di questo provvedimento, l’amministratore ha cominiciato a tagliare tubi, sigillare contatori etc.

A questo punto,  uno degli occupanti dello stabile (e dico, appunto, occupanti, perchè non si trattava del proprietario apparente), moroso, ha chiesto con un (secondo) ricorso di urgenza al Tribunale di ordinare al condominio di riallacciare le utenze interrotte. Ciò sul presupposto di essere stato privato di un bene primario.

Costituitosi in giudizio il condominio, il Giudice del ricorso d’urgenza, rilevato che sussistevano i tre presupposti  sopra illustrati alle lettere a) b) e c)   e rilevato che il primo provvedimento (cioè quello che autorizzava il distacco delle utenze) non era stato fatto oggetto di adeguata impugnazione nè dal proprietario nè dall’occupante, ha respinto il ricorso, condannando altresì l’occupante al pagamento delle spese di giudizio.

Seppure nella eccezionalità della fattispecie (non tutti i condomìni, per fortuna, hanno una morosità di centomila euro!), il caso è da segnalare perchè fa prevalere l’interesse dei condòmini sull’interesse (finora considerato spesso intangibile) del singolo a non vedersi privato di servizi (acqua, riscaldamento) obbiettivamente essenziali.