Edilizia residenziale pubblica: secondo il TAR Lombardia, prima di “cacciare” di casa l’occupante abusivo, l’Amministrazione deve accuratamente esaminare le sue condizioni soggettive

Con un’interessante ordinanza ottenuta dal nostro studio(la n.1502/2011 del 28 settembre 2011) il TAR Lombardia, Sezio Prima, occupandosi del caso di un soggetto gravemente disabile occupante abusivo di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, ha stabilito l’importante principio per il quale l’Amministrazione, prima di notificare il decreto di rilascio dell’immobile occupato, non può prescindere da un previo accurato esame delle sue condizioni soggettive (sanitarie ed economiche in particolare).
Dave in sostanza essere esclusa ogni forma di automatismo.
Nel caso in esame l’amministrazione aveva dichiarato di agire ai sensi e per gli effetti dell’art. 24 del regolamento regionale 10 febbraio 2004, n.1.
Sennonché detta norma sembra autorizzare l’amministrazione all’esercizio di un potere vincolato senza che possano trovare alcun rilievo le condizioni personali, familiari ed abitative degli interessati e con l’ulteriore effetto distorsivo dell’apparente preclusione rispetto alla possibilità di accedere regolarmente ad un nuovo alloggio attraverso i bandi comunali.
Pertanto, qualora tale norma venisse interpretata, come in effetti fatto dal Comune, secondo un criterio squisitamente letterale, evidente sarebbe il suo contrasto con la Costituzione nonché con numerose norme del diritto internazionale pattizio e del diritto europeo (ormai fonti primarie del diritto dell’Unione europea o comunque vincolanti ex art. 117 comma 1 della Costituzione) che delineano l’esistenza di un vero e proprio diritto all’abitazione ovvero all’assistenza abitativa che si pone irrimediabilmente in contrasto con l’apparente “automatismo” della norma regolamentare regionale in tema di rilascio. Continua a leggere

Multa annullata, spese compensate: è giusto?

Può capitare che una sanzione amministrativa venga annullata per vizi formali – l’esperienza insegna che ciò accade soprattutto quando il ricorso è proposto da un tecnico.

La prassi – mai abbastanza censurata – ci insegna anche, però, che il Giudice compensa le spese. Questo vuol dire che il Giudice stabilisce che ciascuno si paga la propria attività e, se il privato si è fatto assistere da un avvocato, che le spese di assistenza legale rimangono a carico di chi si è affidato al professionista.

Capita spesso, altresì, che il Giudice motivi la decisione di compensare le spese sostenendo che ciò è “equo” o “giusto” perché la sanzione è stata annullata per vizi formali e non sostanziali.

Con la Sentenza 8144/011 la Cassazione ha – non è la prima volta – censurato questa prassi.

Scendendo nel particolare ha affermato che “Il verbale di contestazione per violazione del codice della strada, infatti, può essere illegittimo tanto per vizi formali quanto per vizi sostanziali, e la prima categoria non è più lieve della seconda, non potendosi sostenere che nell’ordinamento vi sia un favor per gli errori meramente procedurali della pubblica amministrazione”.   

Può anche capitare che il Giudice compensi le spese perché la somma irrogata a seguito di sanzione poi annullata era modesta.

La Cassazione si pronuncia anche su questo punto ed afferma: “Il modesto valore della controversia non è di per sé giustificativo della compensazione, determinando questo la scelta dello scaglione di valore della controversia su cui parametrare la condanna alle spese”.

Infine la Cassazione impone che in caso di annullamento della sanzione vi deve essere condanna alle spese sia quando il cittadino si difende da solo sia quando il cittadino si avvale di un legale. Ciò perché “Non può essere imputato a colpa della parte che ha adito il giudice proponendo l’opposizione a verbale il mancato esercizio della facoltà di difendersi personalmente, giacché il cittadino, con l’adire il giudice e con il farsi assistere innanzi ad esso da un professionista, esercita dei diritti espressamente attribuitigli dall’ordinamento e garantiti dalla Carta costituzionale (Cass., Sez. 2^, 19 novembre 2007, n. 23993)”.

 

Tre riflessioni:

a)      Il principio affermato dalla Cassazione, oltre che equo, appare conforme al dettato legislativo in tema di soccombenza e difficilmente contestabile.

b)      L’obbligo di condanna alle spese dovrebbe valere nei due sensi: chi perde dovrebbe pagare sempre le spese – sia che a perdere sia il cittadino, sia che a perdere sia l’ente che ha emesso la sanzione. In un’ottica di correttezza dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dovrebbe essere perfettamente normale, anzi, una più estesa applicazione di questo principio porterebbe senz’altro ad una deflazione del contenzioso, evitando ricorsi francamente fantasiosi, diminuendo il numero di cause davanti al Giudice di Pace e velocizzando la durata di quelle rimanenti.

c)      Spesso il costo dell’opposizione – vinta – che rimane a carico del cittadino vittorioso è obbiettivamente esiguo, quindi, prima di impugnare la Sentenza che ha ingiustamente compensato le spese, bisogna anche tenere conto delle spese del giudizio di appello (che andrebbero comunque anticipate). Insomma: fra pratica e grammatica rimane ancora una certa differenza.  

 

Uno spunto: sarebbe interessante valutare se e come questo principio possa essere applicato – e, in verità, non si vede perché no – ad altri atti amministrativi annullati per vizi formali oppure (ancora una volta, perché no?) alle cartelle esattoriali.

 

 

Se il giudice di pace conferma la multa.


I giudici di pace possono sbagliare: non è una novità e neppure una grande scoperta.

A prescindere dalla correttezza della decisione, chi si è visto confermare una multa dal Giudice di Pace ha tutto il diritto di impugnare la Sentenza ed andare in Tribunale – magari per sentirsi dare torto un’altra volta… ma tant’è.

Ci si chiedeva però quale tipo di atto e quale tipo di procedura fosse soggetto il giudizio di impugnazione, cioè il Giudizio di secondo grado innanzi al Tribunale.

Più specificamente: si doveva ancora seguire il rito speciale di cui alla l. 689/1981 – cioè quella che prevede la compilazione di più copie, il deposito del ricorso e la fissazione dell’udienza secondo la procedura a tutti ben nota – oppure il rito ordinario? Citazione a comparire ad udienza fissa?.

Sul punto, seguendo l’orientamento del Tribunale di Roma, è intervenuta la Cassazione che, con Sentenza del 10 marzo 2011 n°5826 ha affermato che si deve seguire il rito ordinario.

Ciò perché il rito ordinario si applica anche ai giudizi svoltisi secondo la procedura della l. 689/81 là dove la stessa l. 689/81 nulla dispone e perché, in ogni caso, “Le regole speciali dettate per il giudizio di primo grado non possono ritenersi automaticamente estensibili a quello di appello in assenza di specifica disposizione in tal senso (SSUU 14520/09; 23285/10; 23594/10)”.

Ovviamente la proposizione del giudizio di impugnazione in appello, davanti al Tribunale, non sospende automaticamente l’esecuzione della Sentenza di primo grado.

 

Sanzioni Amministrative: la tassa sul Ricorso al Giudice di Pace e gli (altri) strumenti di tutela.

Come avrà già appreso chi si sia trovato a proporre ricorso al Giudice di pace avverso una sanzione amministrativa, dal 1° gennaio di quest’anno tali giudizi sono sottoposti al pagamento preventivo del c.d. contributo unificato, ossia di una tassa che si deve anticipare nel momento in cui s’intraprende un contenzioso.

L’importo di tale versamento è proporzionale all’importo del contendere, quindi più è alta la sanzione, più è alto il valore della causa, più alto è il valore del contributo unificato che si deve anticipare.

Si va quindi da un minimo di 30 euro ad massimo di 170 euro (più una marca da bollo di 8 euro in ogni caso)

Non è compito né interesse di questo sito né di questo articolo occuparsi della necessità, della opportunità o della legittimità della disposizione normativa in parola.

Può invece essere utile, a scopo puramente pratico, ricordare che, accanto e parallelamente al ricorso avanti al Giudice di Pace avverso le sanzioni amministrative è possibile proporre ricorso al Prefetto.

Si tratta di un ricorso di tipo amministrativo – o gerarchico – e non di tipo giurisdizionale. Sono stati scritti diversi articoli (anche qui) sulla distinzione tra ricorso amministrativo e ricorso giurisdizionale e non è il caso di ripetersi.

Basterà quindi rammentare che il ricorso amministrativo è un ricorso diretto alla stessa autorità che ha emesso l’atto o ad un’autorità superiore e col quale si chiede a tale autorità di annullare o rivedere (tecnicamente si dice: in autotutela) l’atto impugnato.

La possibilità di proporre ricorso al Prefetto è indicata – e deve esserlo – in calce a tutti i provvedimenti che irrogano una sanzione amministrativa , anche se, in questo articolo, ci stiamo occupando solo dei ricorsi di cui alla l. 689/81.

Circa le modalità di presentazione del ricorso si può senz’altro citare quanto riportato sul sito web del Comune di milano,

Il ricorso deve essere presentato, entro 60 giorni dalla data della contestazione immediata o dalla notifica del verbale di accertamento. Il ricorso deve essere redatto in carta semplice con allegati il verbale oggetto di contestazione e i documenti che si ritengono utili a dimostrare le proprie ragioni Può essere presentato:
· all’ufficio o comando di Polizia che ha accertato l’infrazione (consegnandolo direttamente o tramite lettera raccomandata
senza busta [nda]con avviso di ricevimento )

· direttamente al prefetto mediante lettera raccomandata senza busta [nda] con avviso di ricevimento.

In entrambi i casi si possono allegare i documenti ritenuti idonei a dimostrare la fondatezza del ricorso e può essere richiesta l’audizione personale…. ”

È opportuno chiarire il meglio possibile quali sono i pro e i contro di questa procedura.

Un “contro” è dato senz’altro dal fatto che, se il Prefetto respinge il ricorso, la sanzione è raddoppiata.

Questo “spauracchio” dovrebbe però servire da deterrente contro ricorsi defatigatori o pretestuosi.

Un “pro” è dato dal fatto che la decisione del Prefetto è a sua volta impugnabile innanzi al Giudice di Pace.

In pratica, è come se si avesse un grado di giudizio in più.

Del resto, se si è convinti delle proprie ragioni, non si avrà timore di sostenerle sia davanti al Prefetto che davanti al Giudice di Pace.

Un secondo “pro” è dato dalla possibilità di definire il procedimento mediante il c.d. “silenzio assenso”.

Con questa espressione si indica, semplificando, questa modalità di definizione.

Se il prefetto respinge, emette un’ordinanza e la fa notificare.

Se accoglie o risponde esplicitamente oppure, semplicemente, non risponde.

La legge prescrive che se il Prefetto non risponde entro 180/210 giorni dalla proposizione del ricorso, il ricorso si intende accolto.

A conferma di quanto sopra si riporta quanto si può leggere, per esempio, sul sito del comune di Milano.

“… il ricorso si intende accolto … comunque decorsi 210 giorni dalla ricezione del ricorso da parte del prefetto se gli è stato inviato direttamente o di 180 giorni se il ricorso gli è stato inviato attraverso l’ufficio o comando che ha elevato la multa.”

Può capitare, peraltro, che il Prefetto rigetti il ricorso, ma troppo tardi, cioè oltre i 180/210 giorni di cui si parlava sopra.

In questo caso si deve impugnare l’ordinanza tardiva innanzi al Giudice di Pace, ma questo non esaminerà più la multa per verficare, per così dire, se è giusta o no, ma solo se la decisione del Prefetto è tempestiva o no. Ovviamente il giudizio davanti al Giudice di Pace seguirà le consuete regole procedurali – ivi compreso l’obbligo di versamento del contributo unificato.

Un terzo “pro” è la semplicità e il minor costo della procedura amministrativa rispetto a quella giurisdizionale.

A proposito della possibilità di essere sentiti personalmente dal Prefetto può non essere inutile una precisazione.

Proponendo il ricorso si può chiedere l’audizione personale (v. quanto scritto sopra). È stato a lungo discusso se, in tal caso, sia obbligo del Prefetto ascoltare il ricorrente. Assai di recente,  con Sentenza del 28/1/2010 n°1786, le Sezioni Unite si sono espresse affermando che l’audizione del ricorrente NON è un obbligo. Quindi il Prefetto può decidere anche senza sentire il ricorrente che ne abbia fatto richiesta. Un tale assunto non può che destare qualche perplessità – e, di fatto, rende inutile la richiesta di audizione personale, ma per una più approfondita analisi della questione è opportuno attendere le motivazioni della Sentenza.

Tornando all’argomento iniziale – può essere curioso ricordare che, alcuni anni fa, il legislatore impose una cauzione a chi impugnava, ai sensi della l. 689/81, una sanzione amministrativa, ma la Corte Costituzionale dichiarò la norma illegittima.

È possibile che, mutatis mutandis, la stessa questione venga sollevata in rapporto all’obbligo di versare il contributo unificato.

Conclusivamente sul punto, può essere utile una precisazione.

Può accadere che, nonostante la pendenza del ricorso gerarchico, l’ente impositore notifichi una cartella esattoriale.

Orbene. A parte l’evidente necessità di conservare (aggiungo: per almeno cinque anni – meglio dieci) la prova dell’inoltro del ricorso al Prefetto, è importante far notare come in tale caso la cartella sia illegittima e vada impugnata.

La giurisprudenza, sul punto, è costante da anni e l’ultima Sentenza della Cassazione in proposito è la 26173/2009.

Il ricorso al Prefetto ha dunque l’effetto, finchè pende, di inibire l’emissione di cartelle esttoriali.

Se una cartella viene notificata deve essere impugnata.

Tuttavia (mi rendo conto di essere a questo punto un po’ tecnico, ma essere semplicistico equivale in questo caso a sbagliare e far sbagliare) l’opposizione avverso detta ipotetica cartella  non può essere proposta nelle forme di cui alla l. 689/81 – cioè nelle forme cui di solito ricorre il cittadino quando contesta una multa innanzi al Giudice di Pace.

Opponendosi si deve far valere che il Comune non può procedere ad esecuzione nei confronti del cittadino perchè il titolo esecutivo non si è formato, essendo tuttora pendente il ricorso gerarchico.

 Secondo l’appena citata Cass. 26173/2009 “in pendenza di ricorso al Prefetto, e unque fino a quando quest’ultimo non decide in proposito, non esiste alcun titolo esecutivo che possa dar luogo all’emissione di una cartella esattoriale di pagamento. Illegittimamente quindi è stata emessa cartella esattoriale“. 

E’ appena il caso di notare che questo motivo di opposizione non c’entra nulla col fatto che la multa fosse giusta o no e si basa solo su motivi processuali consistenti nel contestare che l’ente impositore possa procedere ad esecuzione forzata.

 L’opposizione avverso la cartella notificata in pendenza di ricorso gerarchico deve quindi proporsi nelle forme del giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.

 Per chi è del mestiere non è difficile, ma le formalità di un’opposizione ex art. 615 c.p.c. sono un po’ più complesse del “normale” ricorso contro le multe, sicchè si suggerisce al cittadino che si trovi nella sgradevole situazione di aver ricevuto una cartella in pendenza di ricorso al Prefetto di rivolgersi ad un professionsita del luogo.

Cani al guinzaglio: fin dove si spinge l’obbligo?

 Una curiosa sentenza che forse non sarebbe stata neppure pronunciata se i comuni, da un po’ di tempo a questa parte, non fossero preda di una sorta di (perdonate il latino maccheronico) vis multandi che li induce a sanzionare sempre e comunque infliggendo contravvenzioni di ogni genere e sorta.

Nel caso in esame un signore era stato multato perché portava a spasso il cane su un “tratturo” (sic.).

Il comune aveva irrogato la sanzione perché asseriva che il fatto era avvenuto in un centro abitato ed il cittadino, cui evidentemente non deve far difetto la pervicacia, dato che il Giudice di Pace gli aveva dato torto, ha promosso ricorso in cassazione affinché il supremo collegio, tra le altre questioni, in primis la necessità della contestazione immediata per le sanzioni amministrative diverse dalle contravvenzioni per violazioni al codice della strada, avesse modo di pronunciarsi sulla nozione di centro abitato.

Ricordato che, per le sanzioni amministrative diverse dalle violazioni del codice della strada non esiste l’obbligo di indicare subito le ragioni per le quali la contestazione non è avvenuta immediatamente, ben potendo tali ragioni essere indicate, come avvenuto nel caso di specie, anche in sede giudiziale, la Suprema Corte (Cass. 23820/2009) ha affermato che la nozione di centro abitato non può desumersi dalla semplice, asserita e generica presenza di “altre abitazioni”, essendo necessari più precisi riscontri. Esaminata la cartografia in atti, la Cassazione, ricordato che le sanzioni devono essere specifiche ed indicare il luogo esatto (via etc.) ed il momento esatto in cui sarebbe avvenuta la violazione contestata, ricordato, insomma, che il verbale deve contenere elementi inequivocabili che consentano di definire la fattispecie, ha annullato la sanzione, condannando il comune al pagamento sia delle spese di primo grado sia di quelle del giudizio di cassazione.

A prescindere dalla peculiarità, se non dalla bizzarria del caso di specie, sia consentita una nota forse un po’ polemica.

Ci si lamenta ed a ragione dell’eccessivo carico delle sedi giudiziarie evidenziando la carenza di strutture atte a farvi fronte.

Senza entrare nel merito di una questione sulla quale non è questa la sede per disquisire, basti osservare che meno sanzioni “a vanvera” comporterebbero sicuramente meno opposizioni e, di riflesso, un minor carico di lavoro per gli uffici.

A tale proposito, un più severo regime di condanna alle spese di giudizio, quale può senz’altro desumersi dal nuovo testo dell’art. 91 c.p.c. potrebbe forse costituire un più valido deterrente (indubitabilmente di più della mai abbastanza censurata prassi della compensazione, cui spesso i giudici ricorrono anche quando non ci sarebbero i presupposti) contro il proliferare di controversie assurde.

A tale proposito sarebbe interessante nel prosieguo verificare qual è la percentuale di soccombenza relativamente al capo delle spese di giudizio allorché una delle parti è la pubblica amministrazione rispetto ad analogo numero di casi in cui le parti sono semplici privati.

Ma si sa, Natale si avvicina e siamo tutti (?) più buoni.

Il rosso non è il giallo (ma il vigile lo sa?)

 Si segnala una curiosa e recente Sentenza della Cassazione (Sent. 9888/09).

In verità, ad essere curiosa, più che la Sentenza è la sanzione amministrativa che è stata portata all’esame della Suprema Corte e che quest’ultima ha annullato.

Il Comune in questione aveva multato un signore perché era passato col rosso O col giallo.

“O” cioè “oppure” (forse il vigile era indeciso o in altre faccende affaccendato, come di solito lo sono gli agenti verbalizzanti).

Però il rosso non è il giallo, sia per madre natura, sia per il codice della strada.

Tant’è che, ai sensi dell’art. 41 nuovo codice della strada, “Durante il periodo di accensione della luce rossa, i veicoli non devono superare la striscia di arresto; in mancanza di tale striscia i veicoli non devono impegnare l’area di intersezione, né l’attraversamento pedonale, né oltrepassare il segnale, in modo da poterne osservare le indicazioni“.

Diverso il comportamento in caso di luce gialla perché “Durante il periodo di accensione della luce gialla, i veicoli non possono oltrepassare gli stessi punti stabiliti per l’arresto, di cui al comma 11, a meno che vi si trovino così prossimi, al momento dell’accensione della luce gialla, che non possano più arrestarsi in condizioni di sufficiente sicurezza; in tal caso essi devono sgombrare sollecitamente l’area di intersezione con opportuna prudenza“.

Due colori differenti e, quindi, due obblighi differenti. E quindi due sanzioni differenti.

Logica conseguenza è che una sanzione irrogata sul presupposto della violazione dell’una oppure dell’altra norma (… l’importante è sanzionare?) è indeterminata; si tratta di due “contestazioni del tutto diverse delle quali l’una esclude l’altra“.

Pertanto – conclude la Cassazione – la multa va annullata.

Logico (e forse non c’era bisogno della Cassazione per saperlo).

Se questo è il principio, ci si domanda se possa essere considerata generica – e quindi da annullare – una multa che contesti al conducente di avere “proseguito la marcia nonostante il divieto del semaforo”… che tipo di divieto? Assoluto (luce rossa) o relativo (luce gialla?).

Speriamo di non dover andare in Cassazione per saperlo.     

Procedure ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori, servizi e forniture: società strumentali, principio di avvalimento e norme a tutela della concorrenza (TAR Lombardia, Sez. I, Rel. Elena Quadri, sent. 5796/2008)

Con una interessante pronuncia, per la quale non constano ad oggi precedenti, il TAR Lombardia ha per la prima volta affrontato il tema dei rapporti intercorrenti tra l’art. 13 d.l. 223/2006, conv. in l. 248/2006, il principio di avvalimento e l’art. 41 cost.
Ha inoltre chiarito il ruolo e la funzione del predetto art. 13.
La vicenda è nata a seguito dell’esclusione, da parte di una stazione appaltante, di un concorrente che aveva partecipato alla procedura ad evidenza pubblica, facendo ricorso alla possibilità di avvalersi dei requisiti, strumenti, mezzi e unità di personale di una società a capitale interamente pubblico e partecipata in via principale da un ente territoriale.
La commissione di gara, sospesa la procedura ad evidenza pubblica, chiesto e ottenuto parere dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dichiarava aggiudicataria un’altra partecipante.
Il motivo di ricorso avverso tale atto della pubblica amministrazione qui di interesse è stata la prospettazione che l’art. 13 d.l. 223/2006 (cosiddetto «Decreto Bersani», conv. in l.248/2006) sarebbe stato erroneamente applicato, in quanto l’ausiliaria non sarebbe qualificabile come partecipante alla gara.
La norma, stabilisce che «Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti competenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto, né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti….»
Quanto alla questione se il soggetto di cui si avvale la società partecipante possa o meno essere qualificato come soggetto partecipante alla gara, il collegio giudicante ha rilevato come la legge stabilisca, all’art. 46 co. 4, che quando un concorrente si avvale dei requisiti di un altro soggetto, per soddisfare i requisiti previsti dai bandi di gara, sia il contraente che il soggetto ausiliario sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante per le prestazioni oggetto del contratto.
Conseguentemente, la prestazione può essere ricondotta ad entrambi i soggetti dell’avvalimento e tali soggetti possono quindi configurarsi come contraenti necessari.
I giudici, accertato il carattere strumentale del soggetto di cui si è avvalsa la partecipante alla gara, hanno stabilito che l’art.13 d.l. 223/2006, conv. in l. 248/2006 non solo non viola l’art. 41 cost., ma «ne costituisce immediata applicazione, mirando dichiaratamente a preservare il mercato da alterazioni e fenomeni distorsivi delle regole della concorrenza», ritenendo che la norma mira ad evitare che alcune imprese possano avvantaggiarsi della struttura della propria compagine societaria per la presenza di soci pubblici.
La ratio legis dell’art. 13, dunque «non solo è volta a tutelare il principio di concorrenza e trasparenza, ma anche – e soprattutto – quello di libertà di iniziativa economica che risulterebbe gravemente turbato dalla presenza (e dalla operatività sul mercato) di soggetti che proprio per la presenza (diretta o mediata) della mano pubblica finiscono in sostanza con l’eludere il rischio d’impresa.»

(a cura dell’Avv. Simone Lazzarini e del Dott. Valentin Vitkov)

TAR Lombardia, Milano, Sezione Prima, sentenza n.5796-2008

I poteri degli ausiliari della sosta non sono “superpoteri”

 Interessante Sentenza della Corte di Cassazione Sezione II sui poteri di accertamento degli ausiliari della sosta.

La Sentenza è stata depositata il 13/1/09 è contraddistinta dal n°551/09 ed annulla una Sentenza del Giudice di Pace che aveva dato torto ad un automobilista che era stato multato per aver parcheggiato sul marciapiedi.

In poche parole questo è il ragionamento della Cassazione a sezione semplice.

Gli ausiliari della sosta ed i dipendenti delle aziende di trasporto pubblico possono irrogare sanzioni amministrative (multe).

Tale potere è però loro conferito in via eccezionale e le norme che glie lo conferiscono devono essere interpretate nel senso più restrittivo possibile.

Gli ausiliari della sosta (e i dipendenti delle aziende di trasporto pubblico) possono quindi esercitare il loro potere solo se tale esercizio è strettamente connesso all’attività di gestione dei posteggi pubblici o di trasporto pubblico delle persone.

Altrimenti, c’è difetto di potere.

Quindi se un soggetto parcheggia – per esempio – sulle rotaie del tram oppure su un parcheggio in concessione, gli ausiliari della sosta lo possono multare, altrimenti no.

Il ricorrente del caso deciso aveva parcheggiato su un marciapiedi non in concessione quindi – così la Sentenza – a poterlo multare erano solo i vigili, non gli ausiliari della sosta.

La multa va quindi annullata

Una curiosità: la Cassazione ha condannato il comune a pagare le spese legali dei due gradi di giudizio.

Ovviamente, per farsele riconoscere è stato necessario andare in Cassazione.   

Danni da “blackout”: più difficile il risarcimento.

D’ora in poi sarà più difficile ottenere il risarcimento dei danni conseguenti ad interruzione della somministrazione di servizi di pubblica utilità.

Queste le conseguenze della recentissima Ordinanza 21765/2008 che la Cassazione ha depositata il 27 agosto 2008.

Questi i fatti così come illustrati nel provvedimento.

Un giorno, e precisamente il 28/9/2003, in quel di Chiaravalle Centrale (CZ) si verificò un’interruzione nella fornitura di energia elettrica.

Alcuni soggetti, ritenendosi danneggiati, agirono contro l’ENEL Distribuzione S.p.A. e contro il Gestore dei Servizi Pubblici Elettrici S.p.A. chiedendo

•-         al Gestore il risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale

•-         all’ENEL, ed in via subordinata, il risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

La causa, iniziata davanti al Giudice di Pace, fu appellata in Tribunale e finì poi in Cassazione. Quest’ultima ha appunto appena deciso ed i punti essenziali della decisione sono i seguenti:

 – La trasmissione (nella specie, dell’energia elettrica) è il servizio di trasporto e di trasformazione nella rete interconnessa ad alta tensione

– Il dispacciamento è l’attività diretta ad impartire disposizioni per l’utilizzazione  dell’energia elettrica nonché quella diretta al coordinamento degli impianti di distribuzione, della rete di distribuzione e degli impianti ausiliari

 – Trasmissione e dispacciamento sono servizi pubblici essenziali a prescindere dalla natura dell’ente gestore.

– L’art. 33 Dlt. 80/98 afferma che “Le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi oppure relativi a provvedimenti adottati dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento disciplinato dalla l. 241/90, (con esclusione di quelli concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi) sono devolute alla giurisdizione del Giudice amministrativo“.

– Nel caso in esame gli utenti avevano chiesto il risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale invocando l’art. 2043 c.c. domandando (appunto) che venissero risarciti i danni subiti a causa dell’abbassamento di tensione,  quindi la causa non doveva essere proposta davanti al Giudice di Pace, ma davanti al TAR.

– Quindi Le Sentenze del Giudice di Pace e del Tribunale devono esser annullate ed il processo deve prseguire davanti al Giudice Amministrativo che è l’unico ad avere giurisdizione (e quindi a poter emettere Sentenze) in materia.

La Cassazione non si è pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale perché nessuno ha formulato alla stessa Cassazione un quesito su tale domanda.

Quattro rapide (e ovviamente contestabili) riflessioni dello scrivente.

•1)      Anche se la Cassazione non si è pronunciata sul punto, ritengo che anche in caso di risarcimento danni da responsabilità contrattuale debba essere affermata la giurisdizione del Giudice Amministrativo; l’art. 33 DLT 80/98 infatti non distingue tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale

•2)      Il principio vale molto probabilmente per tutti i pubblici servizi indipendentemente dalla natura del gestore: elettricità, gas, acqua etc. (forse telefono).

•3)      La giurisdizione del Giudice ordinario sussiste quando si tratta di controversie relative a canoni, corrispettivi, tariffe, indennità etc., oppure quando non c’è un provvedimento del Gestore, ma un semplice comportamento.

•4)       Un ricorso ordinario davanti al TAR costa, di solo contributo unificato, 500 euro. Ecco perché (come scritto all’inizio) il risarcimento dei danni sarà, d’ora poi, senza dubbio più difficoltoso.  

Il semaforo era verde: l’ho visto io ; contravvenzioni e prova per testi

La Cassazione, con la recentissima Sentenza 21816/08 depositata il 29/8/08, afferma ancora una volta un principio ben noto:

quanto i pubblici ufficiali (ed equiparati) affermano fa piena prova fino a querela di falso (che è un procedimento particolare il quale serve a dimostrare che il pubblico ufficiale ha mentito). Ciò però vale solo per quanto attiene ai fatti accaduti alla presenza del pubblico ufficiale oppure da lui compiuti, oppure, ancora, per quanto attiene alla provenienza dell’atto ed alle dichiarazioni rese dalle parti. Non vale, invece, nè per quanto attiene alle valutazioni, nè per quanto attiene (semplificando) ai fatti che il pubblico ufficiale non ha potuto constatare di persona.

Questo principio astratto, dedotto da norme di legge ed affermato anche in altre pronunce, è stato applicato, con conseguenze ineccepibili, ma anche interessanti, in un caso in cui il vigile affermava che un automobilista era passato col rosso e l’automobilista lo negava.

L’automobilista chiedeva di poter dimostrare, tramite testi, che il semaforo era verde, ma il Giudice di Pace non ha ritenuto di ammettere la prova per testi che il conducente chiedeva di poter assumere.

La Cassazione ha annullato la Sentenza del Giudice di Pace per difetto di istruttoria.

La  prova per testi andava quindi ammessa.

E’ ovvio che, perchè ci si possa avvalere di tale principio, è necessario

a) che il pubblico ufficiale non abbia direttamente assistito al fatto (se no occorre proporre querela di falso)

b) che ci sia un teste che vi ha assistito

c) che non ci siano altri mezzi di prova (foto, telecamere, etc.) che rendano superflua o smentiscano la prova per testi.

E’ anche ovvio che tale principio vale sempre, sia quando si tratta di contestare una multa, come nel caso in esame, sia quando si tratta, per esempio, di ricostruire la dinamica di un incidente.