Cominciamo dalla legge e, in particolare, dall’art. 10 del Dlt 212/2000 (soprattutto il terzo comma) che così dispone:
“1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
2. Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa.
3. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’àmbito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto(“.
Sembrerebbe, quindi, che, a differenza di quanto avviene di solito, in materia tributaria l’ignoranza scusi.
Come si sa, però, le leggi devono essere interpretate ed applicate. Nnon esistono leggi “chiare” e, soprattutto, non esistono leggi chiare in rapporto ad ogni specifico caso che si può verificare nella vita reale, ma questo è un discorso più epistemologico che giuridico.
Quindi: che cosa vuol dire, in concreto, “obiettive condizioni di incertezza?”.
La Cassazione, sull’onda lungo di un orientamento pro fisco su cui i giudici sembrano fare surf negli ultimi tempi precisa, (Sentenza 14897/2009) “l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente“.
Fin qui, niente di (troppo) strano. L’incertezza è un esimente e chi la invoca la deve provare. Deve provare cioè che le norme censurate sono contraddittorie, scoordinate, equivoche, mal scritte ecc. ecc. In realtà è più difficile quanto sembri: non perché manchino norme confuse, scoordinate, equivoche, mal scritte ecc. ecc. (anzi, ce ne sono in abbondanza), ma perché la “incertezza” non è un fatto, ma un’opinione. Ciò che appare incerto a me (per es. me contribuente), può apparire certo ad un altro (per es. il fisco) e un terzo (per es. il giudice) può avere, in proposito, un’altra opinione ancora. Premesso che “l’obbiettiva incertezza” è una chimera, almeno se la si intende nel senso più rigoroso, la domanda è dal punto di vista di chi ci si deve porre quando ci si domanda se l’applicazione di una norma nel caso concreto è obbiettivamente incerta?
Nel campo delle sanzioni penali si parla, da sempre, di “conoscenza parallela nella sfera laica” e ci si pone dal punto di vista della persona “media”. In altre parole (e per fare un esempio di scuola) nessuno si difenderà mai da un’accusa di omicidio sostenendo di ignorare che l’omicidio è un reato.
E in campo tributario?
Qui “l’onda lunga” di cui si parlava rischia di abbattersi soprattutto sul contribuente.
La Cassazione (v. anche Cass. 24670/2007) sostiene che ci si deve porre dal punto di vista non del generico contribuente, né dell’ufficio finanziario, né del professionista del settore. È il giudice “unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere – dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” a dover compiere tale giudizio. Si tratta, aggiunge la cassazione, non di un giudizio di fatto, ma di una questione di diritto. Non si tratta meno che mai di una questione di “equità” (la CTR aveva adottato proprio questo criterio, cassato dalla suprema corte).
Qui però, a sua volta, ci si deve chiedere: il giudice, nel valutare se un norma è certa ed incerta (e nessuno gli nega tale potere/dovere) dal punto di vista di chi si porrà, dal proprio (cioè dal punto di vista di un operatore del settore) oppure “farà finta” di essere un contribuente medio (nell’interesse del quale lo Statuto è dettato) ? – e (aggiungiamolo subito a scanso di equivoci non un “finto tonto”).
La Sentenza, in realtà, pare eludere il problema. È ovvio che è il giudice a dover interpretare la norma, ma secondo quali criteri? A parere dello scrivente, è palese che un giudice di commissione tributaria ha, nel valutare l’interpretazione di una norma, criteri e strumenti del tutto diversi dal quisque de populo. A lui parranno chiare norme che il cittadino medio reputa oscure.
A giudizio di chi scrive si corre il rischio di una decisione pro fisco non per parzialità del giudice, ma per caratteristiche intrinseche dello strumento d’interpretazione, il che appare essere un passo indietro rispetto ai principi dello statuto del contribuente.