Il Consiglio di Stato si pronuncia nuovamente sullo schema di decreto interministeriale per le transazioni

Pubblichiamo il nuovo parere, questa volta definitivo, emesso dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto interministeriale per le stipulande transazioni per il risarcimento del danno biologico nonchè lo schema di decreto interministeriale sulla cui base i giudici di Palazzo Spada dovrebbero essersi espressi.
A prestissimo per le prime riflessioni

Il nuovo parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto interministeriale

Lo schema di decreto interministeriale per le stipulande transazioni

Le strade sono piene di buche: chi paga?

 Le strade sono piene di buche. I tribunali ed i giudici di pace sono pieni di cause che riguardano il risarcimento dei danni chiesto da chi è caduto in una di quelle buche.

Va subito detto che in pochi settori come questo la giurisprudenza, anche della Cassazione, è stata incostante. Verrebbe da dire che ha sbandato di qua e di là.

In linea di massima, si può dire che le pronunce oscillano tra due soluzioni diverse.

Un primo orientamento afferma che il proprietario della strada risponde ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c.

Un secondo orientamento afferma che il proprietario della strada risponde ai sensi e per gli effetti dell’art. 2051 c.c.

Non è un distinguo di poco conto, perché l’art. 2043 dispone che “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno“. L’art. 2051 c.c., invece, dispone che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito“.

Quindi: se si applica l’art. 2043 c.c. l’attore – cioè chi è caduto nella buca ed ha poi fatto causa – deve provare tutto (caduta, nesso causale e conseguenze), se invece si applica l’art. 2051 c.c. si presume che il proprietario della strada sia responsabile a meno che non ci sia un caso fortuito.

Per moltissimo tempo, e fino ad oggi, si può dire, la giurisprudenza ha ritenuto che la norma da applicare sia l’art. 2043 c.c.

A questo proposito la giurisprudenza ha elaborato il criterio della insidia o trabocchetto, cioè un pericolo occulto ed imprevedibile.     (v. a tale proposito Cass. civ., Sez. III, 29/04/2006, n.10040)

Allo stesso tempo, però, la stessa giurisprudenza ha ritenuto opportuno operare una distinzione: se la strada ha un’estensione tale che per la pubblica amministrazione è impossibile controllarla, si applica l’art. 2043 c.c., altrimenti l’art. 2051 c.c..( Cass. civ., Sez. III, 08/03/2007, n.5308). A tale proposito, la giurisprudenza parla di res extensa.

Altre Sentenze proponendono per un’interpretazione più estesa dell’art. 2051 c.c. (Cass. civ., Sez. III, 20/02/2006, n.3651,    Cass. civ., Sez. III, 07/10/2008, n.24755 Cass. civ., Sez. III, 06/06/2008, n.15042)

Secondo tali pronunce, in caso da caduta sul manto stradale, la responsabilità della pubblica amministrazione è “aggravata” (secondo alcuni, addirittura “oggettiva”) e la stessa pubblica amministrazione può liberarsi di tale responsabilità solo se riesce a provare il caso fortuito, cioè il “fatto estraneo alla sfera del custode, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di inevitabilità” (Cass. civ., Sez. III, 07/10/2008, n.24755). Peraltro “Essendo detti beni particolarmente esposti a fattori di rischio non prevedibili e non controllabili dal custode, perché determinati dai comportamenti del pubblico indiscriminato degli utenti – che il custode non può escludere dall’uso del bene e di cui solo entro certi limiti può sorvegliare le azioni – il caso fortuito, idoneo ad esimere da responsabilità il custode di beni demaniali, va individuato in base a criteri più ampi ed elastici di quelli che valgono per i beni privati ” (Cass. civ., Sez. III, 06/06/2008, n.15042).

La Cassazione è tornata ancora di recente sul tema con la Sentenza 2/12/2008 – 23/1/2009 n° 1691.

Tale pronuncia sposa la tesi secondo la quale ai casi in esame (la fattispecie in questione riguardava un motociclista caduto su una macchia di gasolio) si applica l’art. 2051 c.c. e si segnala perché, per la Cassazione, l’art. 2051 “è applicabile nei confronti dei comuni quali proprietari di strade pur se tali beni siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo. La “zonizzazione” comporta per il comune un maggior grado di possibilità di sorveglianza e di controllo sui beni del demanio stradale, con conseguente responsabilità del comune stesso per i danni da esso cagionato salvo il ricorso al caso fortuito. Né può sostenersi che l’affidamento della manutenzione in appalto sottrarrebbe la sorveglianza ed il controllo al comune…”.

Quindi, se il Comune appalta la manutenzione od il controllo di talune strade a terzi viene meno il requisito della res extensa di cui si parlava sopra.

La sentenza ha avuto una certa risonanza anche al di fuori della stampa specializzata, accompagnandosi sovente all’invito, neanche troppo celato, a volte, a “fare causa” al comune se si cade in una buca.

Senza dubbio, la Sentenza in commento facilita le richieste di risarcimento, ma le precisazioni sopra svolte (i distinguo della Cassazione, la parziale diversità di orientamenti all’interno della Cassazione stessa) portano ad escludere che si possa parlare di “strada spianata” ai risarcimenti. Indubbiamente, ora è più facile chiederli.        

Il danno esistenziale è morto (?) viva il danno morale(?)

 Come sanno ormai anche i “non addetti ai lavori” le SSUU con una Sentenza recente e notissima (la 26972/2008) hanno statuito – se vogliamo proprio ridurre ad un slogan 59 pagine di Sentenza – che il Danno Esistenziale non esiste.

Il danno, secondo le SSUU è patrimoniale o non patrimoniale ed il c.d. danno biologico è una voce dell’ultimo.

Più precisamente, e trascrivendo quanto le SSUU affermano a pag. 47 (punti 4.8 e 4.9) “il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre… il danno non patrimoniale … identificatosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di divisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale- di cui parlerò oltre – dano biologico, danno da perdita del rapporto parentale etc) risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative si siano verificate sul valore uomo e provvedendo alla loro integrale riparazione. Viene dunque in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente  di un più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo … senza determinare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico …”.

Vale la pena di ricordare che è – anche per il legislatore – “lesione temporanea o permanente dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale che esplica un’incidenza sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico – relazionali del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito“.

Vediamo ora di tirare le fila.

Il danno morale è una sofferenza soggettiva in sé considerata che non determina degenerazioni patologiche. Esso può essere risarcito solo se c’è un reato (che il giudice civile può accertare anche per conto suo, a prescindere da valutazioni del giudice penale).

Vorrei muovere un passo oltre questa definizione che deriva da un’analisi pressoché letterale dei principi enunciati dalle Sezioni Unite.

È ovviamente opinione mia.

In pratica, il criterio sembra essere il seguente: se c’è una patologia psicofisica (e il pensiero corre subito alla “depressione”) siamo all’interno del danno biologico. Se c’è una sofferenza soggettiva che non sfocia in patologia psicofisica (e purché ci sia reato) c’è danno morale.

Tale definizione nasconde però – a mio parere – una debolezza.

Il codice civile, dal quale comunque il giurista deve partire, si fonda su una distinzione corpo / mente piuttosto datata. Il legislatore del 1942 sembra dirci (almeno a mio giudizio): il corpo è una cosa, la mente un’altra.

Le malattie psicosomatiche erano al di là da venire.

Ora come ora il legislatore e la Cassazione ci parlano di integrità psicofisica da risarcire e, ad essa, aggiungono (in realtà, lasciano che sopravviva) un ulteriore risarcimento da lesione morale soggettiva.

In concreto, quindi, sembra tutt’altro che improbabile una Sentenza siffatta: Tizio ha subito una lesione psicofisica a causa di un evento che è anche un reato. Quindi è caduto in depressione. Quindi deve essere risarcito. Però deve essere risarcita anche la sofferenza morale soggettiva – che però bisogna allegare e provare – che va oltre e che non è coperta dal risarcimento del danno biologico.

Tale sofferenza morale, peraltro (come mi piace argomentare sempre da Cass. 26972/08 punto 3.9) non è data da “pregiudizio consistente in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana …”

Insomma: si sa bene che cosa il danno morale non è (non è patologia psicofisica, né “insoddisfazione”). Si sa molto meno bene che cos’è: che cosa vorrà mai dire “sofferenza morale soggettiva da reato”? e, soprattutto, come si prova? Sarà ammissibile il ricorso a presunzioni?

Fermiamoci qui, per ora.

Sempre come tutti sanno il danno morale, se liquidato, nella prassi, è sempre stato ancorato in misura percentuale rispetto al danno biologico (un quarto, un terzo,  etc.).

Andiamo ad esaminare la ancor più recente Sentenza 29191/08 (depositata il 12/12/08) della III Sezione civile della Cassazione.

In fatto, va premesso che il caso si riferisce ad una ipotesi in cui il danneggiato aveva subito lesioni gravissime, pari al 62%!

Qui leggiamo “nel caso di lesioni gravissime… il danno biologico deve essere personalizzato calcolando anche la componente della capacità lavorativa (che, se vogliamo essere coerenti, dovrà essere qualcosa di non patrimoniale?!) … e del danno psichico (ma il danno biologico non risarcisce la lesione dell’integrità psicofisica?) sicché ai valori tabellari della stima statica della gravità del danno… devono aggiungersi in aumento…” e poi “…. trattandosi di lesioni gravissime con esiti dolorosi anche dal punto di vista psichico, la autonoma ontologia del danno morale deve essere considerata in relazione alla diversità del bene protetto, che attiene alla sfera della dignità morale della persona… nella valutazione del danno morale contestuale alla lesione del diritto alla salute, la valutazione di tale voce, dotata di logica autonomia in relazione alla diversità del bene protetto, che pure attiene ad un diritto inviolabile della persona (la  sua integrità morale… ) deve tenere conto delle condizioni soggettive della persona umana e della gravità del fatto, senza che possa considerarsi il valore dell’integrità morale una quota minore del danno alla salute” .

Sembra quasi che la Cassazione stia cercando una “valvola di sfogo”, quasi pentita del rigore con cui ha rintuzzato la categoria del danno biologico e annichilito il danno esistenziale.

Detto in altre parole, sembra quasi che stia cercando di spostare nell’ambito del danno morale, invitando il Giudice di merito a discostarsi dalle tabelle in uso, voci che sembrano stare strette nella categoria dell’integrità psicofisica.

E sembra quasi (ma credo che sia più che un’impressione!) che inviti l’interprete a non sottovalutare la componente psichica del danno biologico.

Questi i principi di diritto cui dovranno (?) attenersi i giudici del merito.

Staremo a vedere come.

Danni da “blackout”: più difficile il risarcimento.

D’ora in poi sarà più difficile ottenere il risarcimento dei danni conseguenti ad interruzione della somministrazione di servizi di pubblica utilità.

Queste le conseguenze della recentissima Ordinanza 21765/2008 che la Cassazione ha depositata il 27 agosto 2008.

Questi i fatti così come illustrati nel provvedimento.

Un giorno, e precisamente il 28/9/2003, in quel di Chiaravalle Centrale (CZ) si verificò un’interruzione nella fornitura di energia elettrica.

Alcuni soggetti, ritenendosi danneggiati, agirono contro l’ENEL Distribuzione S.p.A. e contro il Gestore dei Servizi Pubblici Elettrici S.p.A. chiedendo

•-         al Gestore il risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale

•-         all’ENEL, ed in via subordinata, il risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

La causa, iniziata davanti al Giudice di Pace, fu appellata in Tribunale e finì poi in Cassazione. Quest’ultima ha appunto appena deciso ed i punti essenziali della decisione sono i seguenti:

 – La trasmissione (nella specie, dell’energia elettrica) è il servizio di trasporto e di trasformazione nella rete interconnessa ad alta tensione

– Il dispacciamento è l’attività diretta ad impartire disposizioni per l’utilizzazione  dell’energia elettrica nonché quella diretta al coordinamento degli impianti di distribuzione, della rete di distribuzione e degli impianti ausiliari

 – Trasmissione e dispacciamento sono servizi pubblici essenziali a prescindere dalla natura dell’ente gestore.

– L’art. 33 Dlt. 80/98 afferma che “Le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi oppure relativi a provvedimenti adottati dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento disciplinato dalla l. 241/90, (con esclusione di quelli concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi) sono devolute alla giurisdizione del Giudice amministrativo“.

– Nel caso in esame gli utenti avevano chiesto il risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale invocando l’art. 2043 c.c. domandando (appunto) che venissero risarciti i danni subiti a causa dell’abbassamento di tensione,  quindi la causa non doveva essere proposta davanti al Giudice di Pace, ma davanti al TAR.

– Quindi Le Sentenze del Giudice di Pace e del Tribunale devono esser annullate ed il processo deve prseguire davanti al Giudice Amministrativo che è l’unico ad avere giurisdizione (e quindi a poter emettere Sentenze) in materia.

La Cassazione non si è pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale perché nessuno ha formulato alla stessa Cassazione un quesito su tale domanda.

Quattro rapide (e ovviamente contestabili) riflessioni dello scrivente.

•1)      Anche se la Cassazione non si è pronunciata sul punto, ritengo che anche in caso di risarcimento danni da responsabilità contrattuale debba essere affermata la giurisdizione del Giudice Amministrativo; l’art. 33 DLT 80/98 infatti non distingue tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale

•2)      Il principio vale molto probabilmente per tutti i pubblici servizi indipendentemente dalla natura del gestore: elettricità, gas, acqua etc. (forse telefono).

•3)      La giurisdizione del Giudice ordinario sussiste quando si tratta di controversie relative a canoni, corrispettivi, tariffe, indennità etc., oppure quando non c’è un provvedimento del Gestore, ma un semplice comportamento.

•4)       Un ricorso ordinario davanti al TAR costa, di solo contributo unificato, 500 euro. Ecco perché (come scritto all’inizio) il risarcimento dei danni sarà, d’ora poi, senza dubbio più difficoltoso.  

Il semaforo era verde: l’ho visto io ; contravvenzioni e prova per testi

La Cassazione, con la recentissima Sentenza 21816/08 depositata il 29/8/08, afferma ancora una volta un principio ben noto:

quanto i pubblici ufficiali (ed equiparati) affermano fa piena prova fino a querela di falso (che è un procedimento particolare il quale serve a dimostrare che il pubblico ufficiale ha mentito). Ciò però vale solo per quanto attiene ai fatti accaduti alla presenza del pubblico ufficiale oppure da lui compiuti, oppure, ancora, per quanto attiene alla provenienza dell’atto ed alle dichiarazioni rese dalle parti. Non vale, invece, nè per quanto attiene alle valutazioni, nè per quanto attiene (semplificando) ai fatti che il pubblico ufficiale non ha potuto constatare di persona.

Questo principio astratto, dedotto da norme di legge ed affermato anche in altre pronunce, è stato applicato, con conseguenze ineccepibili, ma anche interessanti, in un caso in cui il vigile affermava che un automobilista era passato col rosso e l’automobilista lo negava.

L’automobilista chiedeva di poter dimostrare, tramite testi, che il semaforo era verde, ma il Giudice di Pace non ha ritenuto di ammettere la prova per testi che il conducente chiedeva di poter assumere.

La Cassazione ha annullato la Sentenza del Giudice di Pace per difetto di istruttoria.

La  prova per testi andava quindi ammessa.

E’ ovvio che, perchè ci si possa avvalere di tale principio, è necessario

a) che il pubblico ufficiale non abbia direttamente assistito al fatto (se no occorre proporre querela di falso)

b) che ci sia un teste che vi ha assistito

c) che non ci siano altri mezzi di prova (foto, telecamere, etc.) che rendano superflua o smentiscano la prova per testi.

E’ anche ovvio che tale principio vale sempre, sia quando si tratta di contestare una multa, come nel caso in esame, sia quando si tratta, per esempio, di ricostruire la dinamica di un incidente.

La trappola del semaforo giallo

 A chi non è capitato di essere bloccato all’incrocio mentre il semaforo (che era giallo) diventava rosso? Le ragioni possono essere tante, ma, spesso, la causa è la durata del giallo, non adeguata alle condizioni del traffico.Vale la pena riportare che cosa ha recentemente statuito la cassazione (Cassazione civile , sez. II, sentenza 18.04.2007 n° 9167 pubbl. ex mutils su ALTALEX) in proposito. La Sentenza è talmente breve che vale la pena riportarla per intero.M. P. ha impugnato, nei confronti del Comune di Roma, con ricorso notificato il 16 febbraio 2006, la sentenza del Giudice di Pace di Roma, depositata il 20 gennaio 2005, che gli aveva rigettato l’opposizione al verbale di contestazione della violazione di cui agli articoli 41/11 e 146 Cds, redatto dalla Polizia. Lamenta la falsa applicazione dell’articolo 2700 c.c. e la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. atteso che il Giudice di Pace nulla aveva rilevato in ordine all’eccepita inesistenza dell’elemento soggettivo, determinata dal fatto che era rimasto intrappolato dal traffico nell’area d’incrocio, si che non gli poteva essere imputata la circostanza che fosse scattato il segnale rosso. Il Comune non resiste. Il Procuratore Generale ha chiesto la trattazione del ricorso ex articolo 375 c.p.c., attesa la manifesta fondatezza della doglianza. Continua a leggere

I danni alla persona risarcibili

La Cassazione, dopo vari sbandamenti, pare aver preso un indirizzo univoco sulla nota questione del “danno esistenziale”.

Con la Sentenza 2546 del 6 febbraio 2007 così afferma “Il danno esistenziale, da intendere come ogni pre­giudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) che alteri le abitudini e gli assetti relazionali propri del soggetto, inducen­dolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno non costituisce una componente o voce né del danno biologico né del danno morale, ma un auto­nomo titolo di danno, il cui riconoscimento non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio sulla natura e sulle caratte­ristiche del pregiudizio medesimo.”

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Il risarcimento danni da infortunio va rivalutato

Le sezioni unite intervengono sul dissidio giurisprudenziale in tema di obbligo, da parte dell’assicurazione, di sottoporre a rivalutazione le somme erogate a titolo di risarcimento danni.

Con la Sentenza 395/2007 le Sezioni Unite della Cassazione fanno proprio l’orientamento maggioritario della giurisprudenza e stabiliscono che, indipendentemente dalla previsione, nel contratto di assicurazione, di un massimale, quanto corrisposto dall’assicurazione a titolo di risarcimento danni conseguenti ad un infortunio è un capitale che deve essere automaticamente (cioè a prescindere dalla specifica prova in proposito) sottoposto a rivalutazione onde compensare il deprezzamento della moneta.

La Sentenza, da invocare sopratutto nei casi in cui le somme erogate quale risarcimento per un infortunio vengono corrisposte a distanza di anni, avrà necessariamente un notevole impatto in tutti i casi in cui la rivalutazione, pur richiesta, è stata negata.