Uso del cortile condominiale come parcheggio e regolamento di condominio.

 Questo il caso: un regolamento condominiale non trascritto vieta di utilizzare il cortile condominiale come parcheggio. Nondimeno, taluni condomini sono soliti parcheggiare in luogo i propri veicoli.

Sorge una controversia che, dal Giudice di Pace, finisce in Cassazione.

La suprema corte così afferma: le norme da prendere in considerazione sono  l’art. 1102 c.c. e l’art. 1117 c.c.

La prima  norma afferma che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso” (1102 c.c.) mentre la seconda norma elenca le cose comuni, tra le quali ci sono i cortili.

La Cassazione ha affermato che usare il cortile condominiale come parcheggio è utilizzo compatibile con il principio affermato dall’art. 1102 e sempre che siano rispettati i limiti imposti da detta norma. Testualmente, afferma la corte, “un tale divieto (cioè quello di usare il cortile come parcheggio) non si può ricavare dal disposto dall’art. 1102 ” .

Mi pare opportuno integrare la pronuncia con due osservazioni.

La prima è che sta ai condomini la facoltà di disciplinare l’uso della cosa comune – e penso per esempio alle disposizioni regolamentari in materia di carico e scarico merci, ai giochi dei bambini etc..

La seconda è che tali limiti rappresentano, ad avviso dello scrivente, disposizioni regolamentari (sulla distinzione tra disposizioni regolamentari e contrattuali v. per esempio Cass. 14/8/2007 n°17694) come tali modificabili ex art. 1136 c.c.

Per quanto è dato ricostruire dallo “svolgimento del processo” della Sentenza di cui sopra, i giudici hanno attribuito al divieto assoluto di utilizzo del cortile condominiale natura di disposizione contrattuale e come tale modificabile solo con l’unanimità dei condomini ed opponibile agli stessi ed ai loro aventi causa solo se trascritta.

Poiché, nel caso in esame, il regolamento non era stato adottato all’unanimità e, soprattutto, non era stato trascritto, la Cassazione ha confermato la Sentenza del giudice di Pace che aveva ritenuto inefficace il divieto assoluto di parcheggio.     

Le strade sono piene di buche: chi paga?

 Le strade sono piene di buche. I tribunali ed i giudici di pace sono pieni di cause che riguardano il risarcimento dei danni chiesto da chi è caduto in una di quelle buche.

Va subito detto che in pochi settori come questo la giurisprudenza, anche della Cassazione, è stata incostante. Verrebbe da dire che ha sbandato di qua e di là.

In linea di massima, si può dire che le pronunce oscillano tra due soluzioni diverse.

Un primo orientamento afferma che il proprietario della strada risponde ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c.

Un secondo orientamento afferma che il proprietario della strada risponde ai sensi e per gli effetti dell’art. 2051 c.c.

Non è un distinguo di poco conto, perché l’art. 2043 dispone che “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno“. L’art. 2051 c.c., invece, dispone che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito“.

Quindi: se si applica l’art. 2043 c.c. l’attore – cioè chi è caduto nella buca ed ha poi fatto causa – deve provare tutto (caduta, nesso causale e conseguenze), se invece si applica l’art. 2051 c.c. si presume che il proprietario della strada sia responsabile a meno che non ci sia un caso fortuito.

Per moltissimo tempo, e fino ad oggi, si può dire, la giurisprudenza ha ritenuto che la norma da applicare sia l’art. 2043 c.c.

A questo proposito la giurisprudenza ha elaborato il criterio della insidia o trabocchetto, cioè un pericolo occulto ed imprevedibile.     (v. a tale proposito Cass. civ., Sez. III, 29/04/2006, n.10040)

Allo stesso tempo, però, la stessa giurisprudenza ha ritenuto opportuno operare una distinzione: se la strada ha un’estensione tale che per la pubblica amministrazione è impossibile controllarla, si applica l’art. 2043 c.c., altrimenti l’art. 2051 c.c..( Cass. civ., Sez. III, 08/03/2007, n.5308). A tale proposito, la giurisprudenza parla di res extensa.

Altre Sentenze proponendono per un’interpretazione più estesa dell’art. 2051 c.c. (Cass. civ., Sez. III, 20/02/2006, n.3651,    Cass. civ., Sez. III, 07/10/2008, n.24755 Cass. civ., Sez. III, 06/06/2008, n.15042)

Secondo tali pronunce, in caso da caduta sul manto stradale, la responsabilità della pubblica amministrazione è “aggravata” (secondo alcuni, addirittura “oggettiva”) e la stessa pubblica amministrazione può liberarsi di tale responsabilità solo se riesce a provare il caso fortuito, cioè il “fatto estraneo alla sfera del custode, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di inevitabilità” (Cass. civ., Sez. III, 07/10/2008, n.24755). Peraltro “Essendo detti beni particolarmente esposti a fattori di rischio non prevedibili e non controllabili dal custode, perché determinati dai comportamenti del pubblico indiscriminato degli utenti – che il custode non può escludere dall’uso del bene e di cui solo entro certi limiti può sorvegliare le azioni – il caso fortuito, idoneo ad esimere da responsabilità il custode di beni demaniali, va individuato in base a criteri più ampi ed elastici di quelli che valgono per i beni privati ” (Cass. civ., Sez. III, 06/06/2008, n.15042).

La Cassazione è tornata ancora di recente sul tema con la Sentenza 2/12/2008 – 23/1/2009 n° 1691.

Tale pronuncia sposa la tesi secondo la quale ai casi in esame (la fattispecie in questione riguardava un motociclista caduto su una macchia di gasolio) si applica l’art. 2051 c.c. e si segnala perché, per la Cassazione, l’art. 2051 “è applicabile nei confronti dei comuni quali proprietari di strade pur se tali beni siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo. La “zonizzazione” comporta per il comune un maggior grado di possibilità di sorveglianza e di controllo sui beni del demanio stradale, con conseguente responsabilità del comune stesso per i danni da esso cagionato salvo il ricorso al caso fortuito. Né può sostenersi che l’affidamento della manutenzione in appalto sottrarrebbe la sorveglianza ed il controllo al comune…”.

Quindi, se il Comune appalta la manutenzione od il controllo di talune strade a terzi viene meno il requisito della res extensa di cui si parlava sopra.

La sentenza ha avuto una certa risonanza anche al di fuori della stampa specializzata, accompagnandosi sovente all’invito, neanche troppo celato, a volte, a “fare causa” al comune se si cade in una buca.

Senza dubbio, la Sentenza in commento facilita le richieste di risarcimento, ma le precisazioni sopra svolte (i distinguo della Cassazione, la parziale diversità di orientamenti all’interno della Cassazione stessa) portano ad escludere che si possa parlare di “strada spianata” ai risarcimenti. Indubbiamente, ora è più facile chiederli.        

Il rifiuto di autotutela non è impugnabile

 Prima di entrare nel cuore della questione, visto che la stessa richiede un minimo di competenza tecnica, è necessaria una precisazione terminologica.

Si definisce “autotutela” l’attività con la quale l’amministrazione finanziaria, di propria iniziativa oppure su richiesta del contribuente, ritira, modifica od annulla un atto (per. es. un avviso di accertamento o una cartella esattoriale).

Ad agire in autotutela, quindi, è sempre l’ente che ha emesso l’atto oppure l’organo superiore.

L’istanza con la quale il contribuente chiede che l’amministrazione finanziaria agisca in autotutela si definisce ricorso “gerarchico”  o “in via amministrativa”.

Se invece il contribuente si rivolge alla Commissione Tributaria si parla di “ricorso giurisdizionale”.

In questo caso il contribuente chiede sempre il ritiro, la modifica o l’annullamento dell’atto, ma chiede che a decidere in proposito non sia l’ente che ha emesso l’atto (oppure quello superiore), bensì un giudice. Quelli tributari sono, per l’appunto, giudici.

Il ricorso giurisdizionale deve essere proposto, a pena di decadenza, entro un certo termine.

La durata del termine cambia a seconda dell’atto di cui si chiede la modifica o l’annullamento. Di solito, il termine è di 60 gg. dalla notifica.

Se il termine non viene rispettato, il ricorso giurisdizionale viene dichiarato inammissibile e respinto per vizio di procedura (decadenza).

Il ricorso gerarchico, invece, non ha termine.

Qual è il rapporto tra i due ricorsi?

Esprimendosi in termini approssimativi, ma, si spera, abbastanza chiari, si può affermare che, di solito, la giurisprudenza afferma che se si propone ricorso giurisdizionale, quello gerarchico deve intendersi abbandonato.

L’elemento importante, però, è che se si propone ricorso gerarchico i termini per proporre ricorso giurisdizionale non si sospendono.

Quindi, se, per esempio, si hanno sessanta giorni di tempo per impugnare una cartella o un avviso di accertamento e li lasciano scadere senza proporre ricorso giurisdizionale, ma limitandosi a proporre ricorso gerarchico, non sarà più possibile, scaduti i termini (i sessanta giorni dell’esempio), proporre ricorso giurisdizionale, ma si potrà contare solo sul ricorso gerarchico, sperando che venga accolto. Prova il casino reale online casino Canada real money e vinci!

E che cosa accade, se il ricorso gerarchico viene respinto? Se cioè l’ente che ha emesso l’atto (o quello superiore) rifiuta di ritirarlo, modificarlo, annullarlo? Se, in altre parole ancora, l’autotutela viene respinta?

Secondo le Sezioni Unite – Cassazione SSUU 2870/99 del 6/2/09 – non c’è più niente da fare.

Il provvedimento col quale l’amministrazione finanziaria respinge l’autotutela, cioè il c.d. “diniego” o “rifiuto” di autotutela, non è impugnabile.

Così si esprimono le Sezioni Unite “avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale“.

Ciò, in diritto, per due ragioni.

La prima è che l’autotutela è un atto discrezionale – quindi non coercibile – della pubblica amministrazione.

La seconda è che, a ragionare diversamente, si rimetterebbe in termini il contribuente che ha lasciato trascorre invano i termini per proporre ricorso giurisdizionale (volendo rimanere nell’esempio, i sessanta giorni di cui sopra).

Conseguenza pratica (non trascurabile) della Sentenza in commento è lo “sfoltimento” di molti ricorsi avverso dinieghi di autotuela, i quali verranno dichiarati inammissibili senza entrare nel merito.

Il consiglio pratico, quindi, è di proporre pure ricorso gerarchico, ma di non lasciare trascorrere invano i termini per proporre ricorso giurisdizionale e, nel dubbio o nel silenzio, proporlo.