L’ignoranza tributaria scusa?

Con la recente Sentenza Cass. 8825/2012 la Cassazione è tornata ad affrontare il problema dell’errore sulla norma tributaria e sulla portata esimente di tale errore.

Le norme principali in materia di errore tributario sono

L’art. 8 del DLT 546/92 per cui della “La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.

L’art. 6 DLT 472/997 per cui “Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento”.

L’art. 10 l. 212/2000 (statuto del contribuente) per cui “Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria . Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”.

È evidente che stiamo parlando di SOLE sanzioni – o di sanzioni ed interessi – mai del capitale ingiunto.

Detto questo, si può passare alla esegesi.

La Cassazione precisa che i principi di cui sopra non sono una applicazione, in campo tributario, del principio per cui l’ignoranza della legge – stavolta – scusa.

In effetti, chiarisce il Collegio, non si parla di “ignoranza” (meno che mai di ignoranza soggettiva), ma di “incertezza normativa oggettiva tributaria” cioè una situazione giuridica oggettiva, caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie.

In parole povere, il principio non è “se non so di violare una norma tributaria non sono soggetto a sanzioni tributarie”, ma “se la situazione è oggettivamente incerta, non sono soggetto a sanzioni tributarie”.

Sì, ma quando, in concreto, c’è questa incertezza?

La Cassazione viene in aiuto all’interprete e stila un elenco – preoccupandosi di chiarire che non è completo e non esclude che vi possano essere altri casi di “incertezza oggettiva”. Eccolo:

1) nella difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; in parole povere: manca una norma

2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; a parere dello scrivente il criterio, benché importante, è piuttosto lacunoso atteso che la SC non chiarisce che cosa sia “la formula dichiarativa della norma giuridica”. Probabilmente si riferisce alla definizione del presupposto impositivo e/o si riferisce all’ipotesi in cui detto presupposto è difficile da individuare oppure da spiegare o applicare (pensiamo a complicate aliquote ed a casi in cui si sovrappongono fiscalità locale e nazionale). Certo la Cassazione poteva essere più chiara. Anche il concetto di “difficoltà di confezione” non è molto intellegibile. Difficoltà di confezione, per chi? Per il legislatore?

3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; anche qui rimane qualche dubbio sul concetto di “formula dichiarativa”. Certo è che, secondo la Cassazione, se “la formula dichiarativa” è oscura, allora la sanzione non è dovuta. Vien fatto di chiedersi perché sia rilevante solo “la formula dichiarativa” e non la norma intera – interpretazione che potrebbe essere sostenuta estensivamente.

4) nella mancanza di informazioni amministrative o nella loro contraddittorietà; qui la SC è chiara

5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell’adozione di prassi amministrative contrastanti; qui la SC è chiara

6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; visto il continuo susseguirsi di norme è possibile che la giurisprudenza non faccia in tempo a formarsi o stratificarsi.

7) nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei Giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale;  caso tutt’altro che raro e che non abbisogna di spiegazioni.

8) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; la SC è chiara. Va aggiunto che spesso la prassi ignora la giurisprudenza e sovente si pone in contrasto con essa puntando ad ottenere pronunce di secondo o terzo grado.

9) nel contrasto tra opinioni dottrinali; la dottrina ha scarso peso, di solito, ma la norma è chiara.

10) nell’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente. Ipotesi, questa, tutt’altro che infrequente. Ci potrebbero essere dei problemi applicativi ove l’interpretazione del legislatore confermi che una sanzione, nonostante magari un difforme orientamento giurisprudenziale, è dovuta.

Al di à di qualche espressione non facilmente intelligibile, si tratta di una Sentenza che gli operatori del settore soprattutto dovranno tenere presente.

Da ultimo va rammentato che secondo un orientamento  14897/2009) “l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente

In attesa delle transazioni il Tribunale di Milano si ripete: oltre 1.250.000 euro a cinque danneggiati thalassemici, ma scomputo per tutti…

Con sentenza n.7296 depositata in cancelleria il 15 giugno u.s. il Tribunale di Milano, Sezione Decima, Dr.ssa Simonetti, decidendo in un caso seguito dal nostro studio, ha nuovamente condannato il Ministero della Salute, questa volta in solido con un ospedale lombardo, a risarcire i danneggiati – cinque ragazzi thalassemici, uno dei quali nel frattempo purtroppo deceduto – con la complessiva somma di oltre 1.250.000 euro (da 86.000 euro per il caso giudicato meno grave ad oltre 600.000 per i parenti del soggetto deceduto).
La decisione, di cui a breve pubblicheremo il testo per esteso,si segnala, in positivo, per affrontare il tema dell’estensione dell’efficacia interruttiva della prescrizione delle richieste di risarcimento dei danni inoltrate al Ministero anche nei confronti degli Ospedali e viceversa, in quanto Ministero e struttura ospedaliera sono coobbligati in solido al risarcimento, mentre sembra discutibile l’applicazione acritica del principio dello scomputo, dalle somme riconosciute come dovute a titolo di risarcimento, degli importi percepiti a titolo di indennizzo.
Premesso infatti che non è chiaro in che modo debba operare il criterio, non si comprende perchè dal risarcimento del danno non patrimoniale andrebbe decurtato l’importo di una prestazione che èuna chiara misura di sostegno economico, dunque patrimoniale, e perchè dello scomputo possa beneficiare, sotto forma di minore esborso, anche chi come l’Ospedale (o come lo stesso Ministero, nel caso in cui l’indennizzo sia corrisposto dall’Asl) non provveda alla corresponsione dell’indennizzo ex lege 210/1992.
Compatibilmente con il febbrile lavoro che ci attende nei prossimi mesi (prima o poi il decreto sulle transazioni sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale), cercheremo di approfondire più avanti anche questi temi.
Buona serata

Avv. Simone LAZZARINI

Class action: il Ministero appella in Consiglio di Stato, ma poi chiede un rinvio: nei prossimi giorni, finalmente, sarà pubblicato in G.U. il decreto-moduli

Si è svolta questa mattina in Consiglio di Stato l’udienza in camera di consiglio sul ricorso in appello (con domanda di sospensione dell’esecuzione) proposto dal Ministero della Salute e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso la sentenza (favorevole ai danneggiati) che il TAR Lazio aveva emesso lo scorso 17 febbraio sulla c.d. “class action amministrativa” promossa da alcune associazioni, appello che era stato notificato il 2 maggio e che era stato depositato il 30 maggio.
La collega che rappresentava l’Avvocatura dello Stato si è presentata depositando una comunicazione del Ministero della Salute con cui veniva rappresentato che il decreto era stato registrato alla Corte dei Conti ed era davvero imminente (questione di pochi giorni) la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Ha chiesto pertanto il rinvio dell’udienza.
Mi sono fermamente opposto (ottenendo non senza fatica che tale mia opposizione fosse messa a verbale), rappresentando anche alcuni profili di inammissibilità del proposto ricorso e, subordinatamente, ho insistito affinché controparte rinunziasse a questo punto alla domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, considerato che il richiedere il rinvio di una domanda cautelare da loro stessi richiesta era una contraddizione in termini.
Tuttavia il Presidente del Collegio, nonostante le mie rimostranze, rilevato che il potere di disporre sulla domanda cautelare spettasse all’appellante ministero, ha ritenuto di accogliere la richiesta di rinvio dell’Avvocatura dello Stato fissando nuova udienza al 27 luglio p.v..
Per quella data è verosimile che il decreto sarà già stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, con prevedibili febbrili attività per la sua interpretazione e/o impugnazione da parte di avvocati, associazioni e danneggiati.
Indipendentemente dal contenuto di tale attesissimo decreto, ancora non noto nei dettagli, e dalle eventuali iniziative per contestarlo in tutto o in parte, sarà comunque bene prestare particolare attenzione anche al cammino che seguirà il disegno di legge n. 3234, d’iniziativa dei senatori CURSI e TOMASSINI, recante “Disposizioni in materia di indennizzo straordinario in favore dei soggetti danneggiati da complicanze irreversibili a causa di trasfusioni di sangue, somministrazione di emoderivati e vaccinazioni obbligatorie“, disegno di legge che potrebbe, se l’iter per la sua approvazione si concludesse in tempi ragionevoli, rappresentare un’eventuale ancora di salvezza per tutti coloro i quali fossero eventualmente esclusi dalla transazione e non riuscissero ad ottenere altrimenti giustizia.
Ma ritengo comunque opportuno attendere comunque la pubblicazione del decreto prima di trarre frettolose conclusioni.
Il precedente del 5 maggio 2011 ci insegna a rimanere con i piedi ben saldi per terra…
A presto

Avv. Simone Lazzarini

Disegno di legge n.3234-2012

Trasfusioni infette: il Tribunale di Milano condanna il Ministero della Salute a risarcire un’occasionale con oltre € 250.000=

Con sentenza n.6472 del 29 maggio, 2012 il Tribunale di Milano, Sezione Decima Civile (Dr.ssa SIMONETTI) in un caso seguito dal nostro studio, è nuovamente tornato a condannare il Ministero della Salute in relazione ad un altro caso di trasfusioni di sangue infetto.
Questa volta si tratta di trasfusioni subite occasionalmente da una paziente che, nel 1983, era stata sottoposta ad alcuni interventi chirurgici e che la consulenza tecnica espletata in corso di causa ha accertato aver subito un danno biologico pari al quaranta per cento.
Particolarmente significative le motivazioni addotte dal Tribunale di Milano per evidenziare la responsabilità del Ministero:
Oltre alle regole di normale prudenza, appare violato pure l‟art. 1 della legge istitutiva del Ministero della Sanità (L. 13.3.58 n. 296). Questa norma attribuisce al ridetto dicastero il compito di provvedere alla tutela della Salute Pubblica, di sovrintendere e coordinare i servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e degli enti pubblici, e di emanare istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari.
Il dovere del Ministero di vigilare sulla preparazione e sulla utilizzazione del sangue (e degli emoderivati) comporta certamente l‟ineludibile obbligo di diligentemente adottare tutte le misure possibili, secondo la migliore scienza medica, al fine di verificare la sicurezza del sangue trasfuso, e di adoperarsi per evitare o ridurre il rischio di contagio, antico quanto la necessità di praticare trasfusioni a scopo terapeutico.
Da parte dell‟allora Ministero della Sanità mancò, invece, oltre a un‟azione coordinata di promozione e implementazione delle concrete possibilità di contenimento trasfusionale (come per es. il predeposito di sangue finalizzato all‟autotrasfusione, l‟emorecupero intraoperatorio, l‟emodiluizione) o di “buon uso del sangue”, l‟adozione di metodi di selezione dei donatori in base al parametro costituito dai valori delle transaminasi (ALT), ovvero in base a criteri anamnestici più rigorosi di quelli contenuti nel regolamento di esecuzione della L. 592/67 (il d.P.R. 1256/71, che si limitava a escludere stabilmente dalla donazione chi avesse contratto epatite virale e, temporaneamente, chi nei sei mesi precedenti avesse subito trasfusioni di sangue o emoderivati o avesse avuto contatti con soggetti affetti da epatite virale). Inoltre vi fu grave ritardo nella formulazione del “piano sangue” (delineato già nella legge 592/67, ma attuato soltanto nel 1994), volto a garantire l‟autosufficienza nazionale, nonché nella adozione di metodiche di inattivazione virale che l‟esperienza scientifica aveva dimostrato efficaci e sicure già dal 1948 (S.S. Gellis et al., Chemical and immunological studies on the products of human plasma fractionation-inactivation of the virus of homologous serum hepatitis in solution of normal human serum albumin by means of it, in J Clin Invest, 1948), quali il riscaldamento a 60° per 10 ore o pastorizzazione di sieri e albumine, o altre modalità di termotrattamento. Infine sono mancati a lungo controlli effettivi sui canali di approvvigionamento (al fine di escludere, per es., l‟impiego di materiale ematico proveniente da donatori mercenari, la cui pericolosità era da tempo nota e che vennero cancellati solo con la L. 107/90, o proveniente da aree del mondo in cui non è garantita la rigorosità dei controlli o la qualità del prodotto), sulla distribuzione, sulle modalità e sulle cautele seguite nella preparazione.

Tali misure, secondo questo giudice, sarebbero state possibili anche prima dell‟epoca in cui furono praticate le trasfusioni causative del danno per cui è processo. Dunque, come già detto, esse erano doverose per il Ministero.
La loro omissione e la mancata vigilanza sulla adozione delle precauzioni possibili da parte delle strutture sanitarie sono state, con altissima probabilità (non può dirsi con assoluta certezza, per l‟indisponibilità – dovuta al tempo trascorso – di elementi di conoscenza in ordine alla “storia” delle singole sacche di sangue effettivamente trasfuse), concause efficienti del danno cagionato all‟attrice dal sangue infetto
“.
In pratica, secondo il Tribunale di Milano il Ministero non può pensare di “cavarsela” – andando esente da ogni responsabilità – affermando di aver raccomandato sin dal 1967 il controllo sulle transaminasi dei donatori…
Altro aspetto degno di nota della sentenza è quello inerente alla “personalizzazione” del risarcimento:
Deve tuttavia tenersi conto, ai fini della giusta commisurazione del risarcimento alla specifica fattispecie e alla effettiva entità del danno, della gravità della sofferenza psichica, come allegato in atti, ingenerata nella danneggiata dalla acquisizione della consapevolezza di aver contratto epatopatia cronica e della possibilità che questa, come è notorio, possa evolvere in cirrosi e anche in neoplasia epatica. Tale sofferenza, con evidenti ripercussioni sulla sfera sessuale e sulle relazioni interpersonali anche intrafamiliari può considerarsi come fatto notorio dalle particolarità della patologia contratta“.
Confidiamo che quest’ulteriore pronunzia possa finalmente contribuire a chiudere in tempi brevi – e non solo “sulla carta” – la nota vicenda dei risarcimenti ai danneggiati.

Avv. Simone LAZZARINI

Il reclamo – o, per meglio dire, il prericorso tributario – e la mediazione tributaria

A partire dal 1° aprile 2012 è stata introdotta una nuova norma nel processo tributario. Si tratta dell’art. 17bis DLT 546/92.

Questa norma prevede che “Per le controversie di valore non superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed è esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48. La presentazione del reclamo è condizione di ammissibilità del ricorso. L’inammissibilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

Il legislatore ha introdotto un “filtro” o, per meglio dire, un ulteriore adempimento processuale per una serie statisticamente abbastanza consistente di contenziosi.

Questo adempimento processuale, definito “reclamo” è obbligatorio quando ricorrono due condizioni:

a)      deve trattarsi di controversie che vedono come controparte l’Agenzia delle Entrate

b)      deve trattarsi di controversie di valore pari od inferiore a ventimila euro.

Se manca uno di queste due requisiti, il reclamo non è necessario, anzi, non è possibile.

È bene precisare che, dato che non si tratta di atti dell’Agenzia delle Entrate, non soggetti alla procedura di reclamo:

–         cartella di pagamento. Peraltro ove si contesti la cartella contestando attività propria dell’Agenzia delle Entrate la cartella, secondo quanto sostienela stessa Agenziacon la circolare n° 9 del 19/3/12, diventa soggetta a reclamo. In questi casi si ritiene opportuno avviare il reclamo sia contro l’Agenzia delle Entrate sia – allo scopo d’informarlo – contro l’Agente della Riscossione (Equitalia)

–         avviso di mora di cui alla lett. e) dell’articolo 19, comma 1 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (ipotesi di scuola, dato che è stato abolito da tempo)

–         avviso di intimazione di cui all’articolo 50, comma 2, DPR 29 settembre 1973, n. 602;

–         iscrizione di ipoteca sugli immobili;

–         fermo di beni mobili registrati

–         atti relativi alle operazioni catastali

Sul punto è pienamente condivisibile la tesi espressa dalla Agenzia delle Entrate con la circolare 19/3/12 n°9.

È bene precisare pure che questo nuovo istituto trova applicazione con riferimento alle fattispecie di rifiuto tacito per le quali, alla data del 1° aprile 2012, non siano decorsi novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza di rimborso.

Per converso, il nuovo istituto non si applica alle controversie riguardanti i rifiuti taciti per i quali, alla data del 31 marzo 2012, sia già decorso il termine di novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza.

Il reclamo – e questo è forse l’aspetto più importante – deve essere identico al ricorso (ecco perché forse sarebbe più corretto chiamarlo prericorso) perché, se non viene accolto, si trasforma automaticamente in ricorso.

Non si tratta quindi di un ricorso gerarchico (o in autotuela), ma di qualcosa di ben diverso e di ben più complicato.

Infatti, se il reclamo non viene accolto, il contribuente deve presentare, come visto, un ricorso identico al reclamo e, se il ricorso non è identico, viene respinto per inammissibilità.

Come noto, se il ricorso viene respinto, l’atto impugnato viene confermato.

Il legislatore ha avuto cura di precisare che la inammissibilità deve e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

Il contribuente che debba proporre un reclamo, quindi, deve stare ben attento a non lasciarsi trarre in inganno dal nome: in realtà sta proponendo un ricorso e deve quindi valutare se è in grado o no di farlo (e, in questo secondo caso, se affidarsi ad un professionista).

La procedura per il reclamo (a ulteriore conferma che si tratta, di fatto, di un prericorso) è la stessa prevista per il ricorso tributario.

Si applicano, infatti, prescrive il legislatore, gli artt. 12, 18, 19, 20, 21, 22 comma 4° del Dlt 546/92, quindi con tutte le formalità prescritte dalla legge tranne il versamento del contributo unificato.

L’aspetto più importante è che, a pena di inammissibilità, il reclamo deve essere proposto entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto da reclamare (a meno che non sia previsto un diverso termine da eventuali leggi speciali). Ricordiamo, ancora una volta, che l’inammissibilità del reclamo è causa di inammissibilità del ricorso.

Si pone il problema della sospensione feriale dei termini. Ad avviso dell’Agenzia delle Entrate, la sospensione si applica.

Praticamente, ciò vuol dire che qualora il termine di novanta giorni previsto dal comma 9 dell’articolo 17-bis del DLT 546/1992 venga a cadere nel periodo tra il 1° agosto e il 15 settembre, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio decorre a partire dal 16 settembre.

Operativamente, va rilevato che il contribuente deve depositare copia di tutti i documenti che, in caso di esito negativo del procedimento, il contribuente intenderebbe allegare al ricorso e depositare presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale.

Dal punto di vista pratico possono sorgere non poche difficoltà, visto che a volte i documenti sono numerosi e quindi, in questi casi, è consigliabile notificare il reclamo mediante la procedura di notifica a mani.

Se la procedura di reclamo non si conclude entro novanta giorni, il reclamo produce gli effetti del ricorso.

Questo significa, in pratica, che, in caso di rigetto del reclamo, entro 120 giorni dalla notifica dello stesso, il contribuente deve depositare l’atto e i documenti in commissione tributaria.

Il reclamo non sospende l’atto impugnato e, in particolare, non ne sospende l’efficacia esecutiva. La questione non è di poco conto solo che si consideri che tra gli atti soggetti a reclamo c’è l’avviso di accertamento.

Tuttavia – e dato che a tutti gli effetti il reclamo è un prericorso – il contribuente può, per interpretazione condivisa anche dalla Agenzia delle Entrate nella ormai pluricitata circolare, chiedere la sospensione dell’atto.

La norma in esame, inoltre, prevede che il contribuente possa proporre una mediazione volta a definire in modo non contenzioso la vertenza.

Si tratta di una facoltà e non di un obbligo e lo scopo della previsione è palesemente tentare di deflazionare il contenzioso.

Ad avviso dello scrivente si tratta di una pia illusione posto che si pone il problema, praticamente rilevantissimo, della responsabilità erariale del funzionario che, accordando la mediazione, rinunci ad una parte delle pretese.

Statisticamente, del resto, la conciliazione giudiziale prevista dall’art. 48 del Dlt. 546/92 (istituto analogo a quello in esame) si è rivelata negli anni un flop (diverso discorso deve farsi per l’accertamento con adesione, invece).

Ulteriore ragione perché il contribuente non proponga, nel reclamo, una mediazione tributaria, sta nell’ultimo comma della norma in esame (cioè l’art. 17 bis DLT 546 /92).

Tale comma così dispone: “Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo. Nelle medesime controversie, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria, può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione”.

Quindi, il contribuente che proponga una mediazione e se la veda respinta sarà condannato a pagare il 50% delle spese del procedimento di mediazione che lui stesso ha proposto (!).

L’art. 17 bis in discorso prevede, per il vero, che anche l’Ufficio possa formulare una proposta di mediazione.

Questa possibilità sarebbe senza dubbio da tenere in considerazione, ma, atteso che una proposta di questo genere, da parte dell’Ufficio, implica il riconoscimento di criticità nell’atto che l’Ufficio stesso ha emesso (il che sarebbe come dire non che l’agenzia delle entrate ha sbagliato, ma quasi…) e quindi, ancora una volta, possibili responsabilità erariali da parte del funzionario che ha emesso l’atto “mediato”, si reputa che, ancora una volta, il tentativo di mediazione rimarrà confinato nel Regno delle Idee.

Class action: il TAR Lazio ordina al Ministero di chiudere la procedura transattiva per il risarcimento dei danni da sangue infetto entro 90 giorni (17 maggio)

Era ora, finalmente, dopo la discussione del 5 dicembre 2011 è arrivata la decisione che attendevamo.
Con sentenza n.1682 del 17 febbraio 2012 il TAR Lazio, in riferimento all’azione promossa da varie associazioni e gruppi di danneggiati per sollecitare il Ministero a dare seguito alla procedura per la definizione transattiva delle cause aventi ad oggetto il risarcimento del danno biologico da somministrazione di sangue ed emoderivati infetti, ha così stabilito: “….deve concludersi per la sussistenza di un obbligo dell’Amministrazione resistente di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, in applicazione della previsione dell’art. 2, 10 comma della 1. 7 agosto 1990, n. 241 e del generale principio di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento del privato.
Essendo ormai ampiamente decorso il termine per la conclusione del procedimento stesso (da individuarsi, in mancanza di specifica indicazione, nel termine sussidiario cli novanta giorni previsto dall’art. 2, 30 comma della 1. 7 agosto 1990 n. 241), deve quindi trovare accoglimento la pretesa dei ricorrenti ad un provvedimento espresso e motivato (art. 2, 1° comma 1. 7 agosto 1990 n. 241) che concluda il procedimento instaurato a seguito delle domande già a suo tempo presentate.
Peraltro, siffatto obbligo non può venir meno in ragione della mancata emanazione del decreto di natura non regolamentare del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali cli concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze previsto dall’art. 5 del d.m. 28 aprile 2009 n. 132, trattandosi di un adempimento che doveva già essere effettuato dalla stessa Amministrazione resistente.
Deve quindi essere annullato l’atto impugnato ed affermato l’obbligo per il Ministero della salute di pronunciarsi con provvedimento espresso sulle domande di adesione alla transazione presentate dai ricorrenti, anche previa emanazione del decreto di natura non regolamentare sopra citato, entro 90 (novanta) giorni dalla notifica o, se anteriore, dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza
“.
Siamo consapevoli che l’obiettivo raggiunto, che verosimilmente non verrà rispettato nei tempi dal Ministero della Salute, non esaurirà il percorso necessario al raggiungimento di un risultato positivo e soddisfacente per tutti, ma almeno cominciano ad esserci dei punti fermi e degli obblighi cui l’Amministrazione non può pensare di sottrarsi ad libitum, impregiudicata, non mi stancherò di ripeterlo, una soluzione legislativa alla questione degli emotrasfusi, la quale tuttavia presupporrebbe ben altra concretezza da parte dei nostri politicanti.
Buona serata

Avv. Simone LAZZARINI

Maxi-risarcimento a una famiglia di una giovane thalassemica deceduta a causa dell’HCV: il Tribunale di Milano condanna il Ministero della Salute a pagare oltre 1.350.000 euro agli eredi

Con sentenza n. 139/2012 emessa il 10 gennaio u.s. dal Tribunale di Milano, Sezione decima civile, Dr.ssa Giovanna Gentile, in un caso seguito dal nostro studio, il Ministero della Salute è stato condannato a risarcire il complessivo importo di oltre un milione e trecentocinquantamila euro ai genitori ed al fratello di una giovane thalassemica deceduta a causa dell’HCV.
Naturalmente non si tratta nè della prima nè dell’ultima sentenza che un tribunale italiano emette in casi simili.
Siamo a conoscenza di casi in cui le liquidazioni concesse sono state ancora superiori.
Tuttavia due dati ci sembrano meritevoli di essere segnalati nel caso da noi seguito.
Sotto un primo profilo va osservato che, se il Ministero della Salute avesse perfezionato a tempo debito la procedura transattiva cui anche gli eredi della sfortunata giovane avevano aderito (rinviando più volte l’udienza conclusiva), avrebbe risparmiato – e quindi fatto risparmiare anche ai contribuenti che in fin dei conti siamo sempre noi – oltre settecentomila euro.
è vero che la sentenza è soltanto di primo grado, tuttavia non è affatto da escludere che l’esito di un eventuale appello possa addirittura peggiorare l’entità della condanna al risarcimento dovuto dal Ministero della Salute, considerato che nell’importo liquidato non si è tenuto conto nè del danno non patrimoniale subito dalla giovane quand’era in vita (e reclamato dagli attori iure hereditario), nè del danno patrimoniale (danno emergente e lucro cessante) subito dagli eredi durante la malattia ed in conseguenza del decesso della congiunta.
Non sembra pertanto fuori luogo ipotizzare, considerate anche le parallele iniziative della class action amministrativa e del ricorso alla CEDU, la configurabilità di un significativo danno all’erario conseguente ai ritardi nella chiusura dell’iter transattivo.
Sotto un secondo profilo va sottolineato che, nel caso che occupa, il Tribunale – alla luce della particolarità del caso – ha motivatamente ritenuto di discostarsi dalle tabelle in uso presso il tribunale di milano per il risarcimento del c.d. danno da perdita del rapporto parentale, liquidando nel caso del fratello della deceduta un importo addirittura quasi triplo rispetto ai massimi tabellari e comunque significativamente superiore ai massimi anche per quanto riguarda i genitori.
Ecco il passaggio più significativo della sentenza:
Nel caso di specie spetta ai congiunti, non essendo revocabile in dubbio il nesso causale tra la grave patologia della vittima e suo decesso il danno non patrimoniale inteso non solo come sofferenza patita per la morte ma anche come lesione del diritto costituzionalmente garantito all’integrità della famiglia …. …..considerate anche la lunga durata della malattia, le sofferenze dei suoi parenti, l’alternarsi di speranze e di terribili delusioni ed infine la morte in giovane età si stima equo liquidare, nello specifico caso, a ciascuno dei congiunti nella rispettiva qualità di genitori e fratelli la somma di euro 380.000,00 per ciascuno dei genitori e la somma di euro 360.000 per il fratello…..“.
E ancora:
condanna il Ministero della Salute a corrispondere agli attori la somma di euro 382.500,00 per ciascuno dei genitori e di euro 360.000 per il fratello …. .; dette somme devono essere maggiorate degli interessi compensativi del 2% dalla data dell’evento di morte alla data della sentenza oltre interessi legali dalla sentenza al saldo“.
Per concludere un’ultima riflessione: in generale è tutt’altro che agevole ottenere l’esecuzione di una sentenza di condanna nei confronti di una pubblica amministrazione, anche per importi ben più modesti come quelli ad esempio dovuti a titolo di differenze per rivalutazione della somma corrispondente all’indennità integrativa speciale (la parte economicamente più sostanziosa dell’indennizzo ex lege 210/1992).
Tuttavia, considerato che anche le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive, sembra sin d’ora doveroso ricordare, anche in questo caso, quanto affermato dalla CEDU in una nota decisione (CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, GRANDE CAMERA, Strasburgo, sentenza 29 marzo 2006), naturalmente pronunziata contro lo Stato italiano:
La Corte può ammettere che un’amministrazione possa aver bisogno di un lasso di tempo prima di procedere a un pagamento; …..comunque tale lasso di tempo non dovrebbe in genere superare sei mesi a partire dal momento in cui la statuizione ……. diviene esecutiva…….Come la Corte ha già abbondantemente ripetuto, un’autorità dello Stato non potrebbe addurre a pretesto la mancanza di risorse per onorare un debito fondato un una decisione di giustizia“.
Che tali principi siano di monito a chi, anzichè fare applicazione dei principii di buona amministrazione, da anni, si perde in chiacchiere….
Non vorremmo essere costretti a ricorrere alla Cedu anche per lamentare la mancata esecuzione delle singole sentenze….
In ogni caso siamo pronti..

Avv. Simone LAZZARINI

Class action: il tempo delle chiacchiere è finito

Nel primo pomeriggio di oggi, dopo un’attesa snervante, abbiamo finalmente discusso nel merito il ricorso per class action amministrativa che, a seguito della perdurante inerzia ministeriale, avevamo notificato ai Ministeri della Salute e dell’Economia e delle Finanze e poi depositato al TAR Lazio ancora nello scorso mese di giugno.
Preliminarmente desidero ringraziare i colleghi siciliani e romani che, intervenendo ad adiuvandum nel ricorso rispettivamente con alcune diecine e – addirittura – con alcune centinaia di assistiti, non ci hanno lasciato soli, ma hanno dimostrato nei fatti di aver pienamente condiviso la strategia adottata con i colleghi ricorrenti.
Prima dell’udienza l’avvocatura – che mai si era sentita in dovere di contattarci nei giorni precedenti – ha timidamente cercato di “strapparci” una richiesta di rinvio motivata con l’asserita imminenza della firma sul decreto, ma francamente – dopo essere appositamente venuti da Milano, Cagliari e Lecce – ci sono sembrati poco serio l’approccio e non convincenti le argomentazioni utilizzate.
Non è la prima volta che la controparte ministeriale, messa alle strette, tenta in modo assai bizzarro di stoppare le iniziative dei danneggiati in base a decisioni o fatti nuovi che, casualmente, si verificano sempre il giorno prima o stanno per accadere… è capitato diecine di volte anche in materia di indennizzo…
In sede di discussione abbiamo replicato a quanto scritto dal Ministero nelle proprie difese (un condensato di argomentazioni oggettivamente insostenibili su di una fantomatica natura “privatistica” – ?! – della procedura transattiva) ed abbiamo tutti evidenziato il non più tollerabile ritardo accumulato dal Ministero nella procedura, ritardo che proprio pochi giorni fa il Consiglio Stato ha affermato essere contrario anche all’art. 41 della Carta Europea dei Diritti fondamentali.
E ancora non abbiamo mancato di rimarcare il comportamento ondivago dell’Amministrazione che, con propria circolare, ha dapprima invitato le Avvocature distrettuali a sensibilizzare i legali dei danneggiati a chiedere rinvii nelle cause salvo poi, come dire (???!!!), “menare letteralmente il can per l’aia” per due anni limitandosi, dopo aver fatto correre tutti gli avvocati a completare la procedura telematica RIDAB entro il 19 gennaio 2010, a richiedere, all’evidente scopo di perdere tempo, il reinvio di atti e documenti già nella materiale disponibilità delle avvocature distrettuali e poi infine d’improvviso, cambiare strategia opponendosi alle richieste di rinvio… una farsa insomma…
Per tutta risposta l’Avvocatura ha negato l’esistenza di un provvedimento che in vece avevamo potuto vedere con i nostri occhi (la circolare che invitava a richiedere i rinvii nella cause pendenti) ed ha tentato maldestramente di portare la discussione su un tema, quello della necessità, avvertita dall’Avvocatura, di evitare di transare con soggetti con sentenze negative per prescrizione (così si è espresso l’Avvocato dello Stato), del tutto estraneo all’iniziativa della class action, come pure acutamente rilevato dal Presidente e comunque non idoneo da solo a giustificare due anni di attesa prima di prendere una decisione, qualunque essa sia (“siamo ben oltre il silenzio” ha laconicamente, ma significativamente rilevato il Presidente).
La causa è stata quindi trattenuta in decisione.
Naturalmente non mancheremo d’informarvi sugli ulteriori sviluppi.
Per concludere un doveroso chiarimento.
Personalmente, come ho più volte avuto modo di sottolineare a clienti e colleghi, sarei felicissimo se si realizzasse l’ipotesi del “superindennizzo” di cui allo schema di decreto legge del 5 maggio, ma se la volontà fosse stata e fosse reale la presente azione dovrebbe ed avrebbe dovuto rappresentare uno stimolo, non certo un ostacolo, considerato che la class action era stata preceduta dalla diffida ormai nove mesi or sono e che, nell’ambito di altra lodevole iniziativa giudiziaria, l’inerzia dell’amministrazione era stata censurata oltre un anno fa…
Chiunque dell’amministrazione statale sostenga il contrario (e cioè che la class action impedirebbe l’attuazione del maxi-decreto del 5 maggio) è in evidente malafede e tenta strumentalmente di precostituirsi un alibi per continuare a non fare gli interessi dei danneggiati, che dal primo gennaio (esemplificativamente) saranno costretti a pagare quasi tremila euro di contributo unificato (e quindi non spese di avvocato, ma spese in favore di quello stesso Stato che quel danno ha cagionato) per proporre un ricorso per cassazione avverso una sentenza di corte d’appello e ciò solo per mantenere in vita il contenzioso in essere in attesa che, “con comodo”, qualcuno si decida a risolvere il problema….
VERGOGNA.
Il tempo delle chiacchiere e dell’aria fritta è finito, ora è tempo di agire in tutte le sedi (la CEDU, per inciso, è già investita di numerosissimi ricorsi anche in tema di transazioni).
Buona serata

Avv. Simone LAZZARINI

La rivalutazione dopo la sentenza della Corte Costituzionale: positive le reazioni della giurisprudenza di merito, ecco la prima sentenza favorevole

Cari amici frequentatori del sito,
ho il piacere di comunicarvi che, all’esito di un’udienza tenutasi stamattina avanti al Tribunale di Busto Arsizio, Sezione Lavoro, il giudice, preso atto della recente sentenza della Corte Costituzionale, ha accertato il diritto alla integrale rivalutazione dell’assegno ex lege 210/92 in favore di un nostro assistito, condannando il Ministero convenuto al pagamento del dovuto.
Non appena sarò in possesso del testo integrale della sentenza (la n.433/2011) non mancherò di postarla sul sito.
A quanto mi risulta, anche altri colleghi sono in attesa di sentenze – si confida di segno favorevole – da parte di altri tribunali nei prossimi giorni.
Insomma la situazione pare evolversi favorevolmente, ma naturalmente la prudenza è d’obbligo…..

Avv. Simone LAZZARINI

Un film-documentario per promuovere la conoscenza del dramma “sangue infetto”, una strage di Stato ancora impunita

Cari amici frequentatori del sito,
ho il piacere di segnalarvi una importante iniziativa che ha preso l’avvio in questi giorni grazie all’intraprendenza di un comitato che si occupa della tutela dei soggetti danneggiati da trasfusioni di sangue ed emoderivati infetti.
Si tratta di un progetto ambizioso per la realizzazione di un film-documentario che racconti davvero la vita dei soggetti danneggiati da quella che è e rimane, nonostante certi giudici la pensino diversamente, una vera e propria strage di Stato, un’epidemia colposa, ma io direi anche dolosa ad oggi rimasta incomprensibilmente impunita.
Chiaramente l’iniziativa comporta dei costi non indifferenti da sostenere.
Pertanto, chi desideri contribuire alla buona riuscita del progetto può farlo semplicemente collegandosi alla pagina web http://www.iodono.com/progetto.asp?id=183&action=preview dalla quale è direttamente possibile effettuare una donazione on line
Per maggiori dettagli potrete consultare il sito www.comitatovittimesangueinfetto.it.
Buona giornata

Avv. Simone Lazzarini